sabato 29 dicembre 2007

«Io, oncologa con il cancro, dico no all’eutanasia»

Il caso di Sylvie Menard
"Quando ho scoperto la malattia è cambiato il mio sguardo sull’esistenza"

Marina Corradi, da Avvenire, 28 novembre 2007

Era un giorno di aprile del 2005. La dottoressa Sylvie Menard, 57 anni, direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto dei Tu­mori di Milano, era alla mensa. D’improvviso un capogiro, uno svenimento. Nulla di grave, forse il bicchiere d’acqua troppo fredda che aveva appena bevuto. Co­munque, i colleghi le impongono di fare un esame del sangue. Lei è tranquilla. La sua salute è ottima. Ma i risultati della elettroforesi ri­velano un picco altissimo di im­munoglobuline. Un esito che si spiega solo in un modo, e quel mo­do, un’oncologa come la Menard lo conosce benissimo. «Era il 26 a­prile. Quel giorno, la donna che e­ro stata fino ad allora è morta. L’e­same segnalava un tumore del mi­dollo, un tumore non guaribile. A casa mi sono guardata allo spec­chio: impossibile, mi dicevo, io sto benissimo. Sono riuscita a addormentarmi solo quando mi sono convinta che, certamente, si trat­tava di un errore». Sylvie Menard oggi ha 60 anni. Il viso abbronzato sopra il camice bianco, è al suo posto, all’Istituto dei tumori. Sembra stare benissi­mo, ma è costantemente in tera­pia. Quell’esame, non era un er­rore. Il cancro c’era, e di quelli per cui non c’è ancora una cura riso­lutiva. Sono stati tre anni di una battaglia, che continua. Sylvie Me­nard lavora, e fa una vita norma­le. Ciò che è cambiato, dice, è il suo sguardo sulla vita. Parigina, cresciuta nella Sorbona del 1968, arrivò in Italia con il matrimonio. Dal ’69 in via Venezian, allieva di Umberto Veronesi, è, dice, laica e non credente. Del suo maestro ha condiviso l’impostazione filosofi­ca. E sulll’eutanasia, è sempre sta­ta d’accordo con lui. Fino a quan­do non si è trovata dall’altra parte della barricata. Malata, e di quale malattia. Allora verità e valori so­no stati rivoluzionati. Tutto è cam­biato: «Io, sono nata di nuovo». La scossa è stata terribile, un ter­remoto. Un oncologo non può il­ludersi, sa. E davanti a quella prognosi, il medico che per tutta la vi­ta ha parlato di cancro si trova sba­lordito e spiazzato: il nemico, ora, è addosso. «Ho conosciuto la im­possibilità, d’un tratto, di fare qualsiasi progetto. Come avere davanti un muro. Il futuro, sem­plicemente non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le ve­drò crescere». Scopre cos’è l’attesa di una dia­gnosi, quando il paziente sei tu. «Il terribile tempo dell’attesa», lo chiama. Quando aspetti l’esito di una biopsia, e non pensi più a nient’altro: «Fissi il telefono, a­spetti, prigioniero di una osses­sione ». Capisce cos’è, essere co­me bloccati in un limbo, quando sai che il male cammina, ma an­cora non ti puoi curare. A casa, l’angoscia dei familiari. Al lavoro, i colleghi. Quelli che vengono a dirti semplicemente : conta su di me. Ma anche quelli che se ti in­travvedono in fondo al corridoio svoltano l’angolo. «Ho scoperto che esiste ancora una parola tabù. È la parola cancro. C’è chi ha pau­ra di te, come se fossi contagioso». E quando dopo venti lunghissimi giorni la terapia può partire, co­me con una improvvisa ribellione dice di no. Che non vuole curarsi. «Era maggio, i primi caldi. Avevo voglia di vivere quell’estate. Per­chè curarmi, se tanto non posso guarire? Avevo voglia di restare ancora fra i sani'. E’ un’altra not­te difficile. («Quando hai un can­cro – dice – quello che conta sono le notti»). Ma il giorno dopo sce­glie: farà la terapia. «Qualcosa in me ha reagito. Anche senza guari­re, prolungare la vita di qualche anno, improvvisamente mi è di­ventato fondamentale, volevo vi­vere fino in fondo». Una metamorfosi attraversa la dottoressa. 'E’ cambiata la consa­pevolezza della vita stessa. Quan­do sei sano, pensi di essere im­mortale. Quando invece la tua fi­ne non è più virtuale, la prospet­tiva si capovolge. Io, il testamento biologico, da sana, lo avrei sotto­scritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un’altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero. Ciò che da sani non si capi­sce, è che i pazienti sono una po­polazione diversa. Anche io, pri­ma, parlavo di «dignità della vita», una dignità che mi sembrava in­taccata in certe condizioni di ma­lattia. Da sani si pensa che dove­re essere lavati e imboccati sia in­tollerabile, 'indegno'. Quando ci si ammala, si accetta anche di vi­vere in un polmone di acciaio. Ciò che si vuole, è vivere. Non c’è nul­la di indegno in una vita total­mente dipendente dagli altri. E’ indegno piuttosto chi non riesce a vederne la dignità». Nel tunnel della chemioterapia la Menard vede tutte le certezze del­la sua vita smentite dalla forza del­la concreta realtà. Guarda con al­tri occhi al dibattito sull’eutana­sia. Pensa a Eluana, la ragazza da molti anni in stato vegetativo che il padre vorrebbe lasciare morire. «Ma lo sappiamo, che quella ra­gazza non ha nessuna spina da staccare? Che l’ipotesi è quella di lasciarla morire di fame e di disi­dratazione? Sappiamo che ’stato vegetativo permanente’ non vuo­le dire che non c’è nessuna atti­vità cerebrale? In un lavoro scien­tifico recente è stato dimostrato che se si mette davanti agli occhi di uno di questi malati una foto­grafia di persone care, e si fa una risonanza magnetica, si vede l’ac­censione di una attività cerebrale. Come si può decidere di sospen­dere l’alimentazione»? Nelle parole della Menard ritrovi quella strana discrasia che noti sempre fra la realtà delle corsie e il dibattito pubblico sulla eutana­sia. Dove la «morte dignitosa» è un «diritto». Nella realtà dolente dei reparti terminali, i malati invece vogliono vivere. Sylvie Menard: «Il favore di tanti all’eutanasia si spie­ga con una sorta di inconscio e­sorcismo, un volere allontanare da sè la possibilità della malattia e del dolore. È una mancanza di imme­desimazione nel malato. Perchè, quando poi ti ci trovi, cambi idea» Ciò che domandano davvero i ma­­lati, dice la Menard, è di non sof­frire. «Deve essere fatto tutto il possibile, contro il dolore. E in questo in Italia siamo indietro. Bi­sogna insegnare ai medici a usare gli oppiacei, e a non lasciare un paziente nella sofferenza per la paura di usare questi farmaci. An­che questo fa parte di un decalo­go su cui lavora la Commissione per la umanizzazione della medi­cina, voluta da Livia Turco, di cui faccio parte». La vera battaglia, dice, è contro il dolore. Non per una morte che, nella esperienza amplissima del­­l’Istituto dei Tumori, i malati «ve­ri» non chiedono. Chiedono, in­vece di non essere abbandonati. 'Temo che l’eutanasia possa es­sere la logica avanzante, se di tan­ti malati, quando muoiono, si dice solo: finalmente, dice la Me­nard. «In Olanda – aggiunge – ci sono 10 mila malati all’anno che chiedono l'eutanasia. L’80 per cen­to sono malati di cancro, assistiti nel migliore dei modi dal punto di vista medico. E allora, mi do­mando, come mai tante richieste? Ho il dubbio che sia perchè è gen­te sola, che avverte attorno una tacita pressione a levare il distur­bo. Che avverte che, mentre vie­ne ottimamente curata, la sua presenza è ormai di troppo. Che, se muoiono, qualcuno dirà: FINALMENTE. E allora si adeguano, e ob­bediscono ». Ha ricominciato a curare le sue piante. I colleghi le hanno regala­to una giovanissima quercia. E’ lì nel vaso accanto alla scrivania. Ha, dice, «una nuova gerarchia di va­lori ». Vola a Parigi, per ogni festa di famiglia, non se ne perde più u­na. La domenica si siede a con­templare il suo giardino. Le pare bellissimo, e bellissima ogni mat­tina, qualunque numero ne resti. Ogni giorno da vivere, nessuno da sprecare. «Il testamento biologico, da sana, l’avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un tumore diventi un’altra persona e ciò che pensavi prima non è più vero». «Quello che chiedono i malati è di non soffrire. Si deve fare tutto il possibile contro il dolore» «All’improvviso ho conosciuto l’impossibilità di fare qualsiasi progetto. Il futuro non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le vedrò crescere» Ora ha ricominciato E ogni giorno le appare bellissimo, da vivere.




Le cure palliative: grandi dimenticate

Francesca Lozito

Non basta un farmaco per contra­stare il dolore. Le cure palliative moderne si propongono di avere un approccio globale ai bisogni del mala­to: dentro c’è tutto, l’assistenza medica, in­fermieristica psicologica, sociale, spiritua­le. «Ma il dolore bisogna curarlo e per far­lo occorre che i medici siano formati alla somministrazione degli oppioidi». Parola di Giovanni Zaninetta, presidente della So­cietà italiana di cure palliative, che punta tutto sulla preparazione appropriata della categoria «Fare delle adeguate politiche di formazione è fondamentale – dice. – Dei tentativi sono stati effettuati negli scorsi anni, ma non hanno avuto un grande seguito. So­prattutto perché è mancato il ricono­scimento. È neces­sario che questo ti­po di formazione alla somministra­zione della morfina riceva l’adeguata certificazione Ecm». E sembra quasi che la carenza di diffusione degli op­pioidi in Italia sia ferma a un crocevia tra «la carenza di informazione sul loro utiliz­zo – dice ancora il medico esperto in cure palliative – e un eccesso di informazione, che va soprattutto in una direzione nega­tiva ». Necessario è allora sfatare un altro mito strisciante e che ogni tanto riemerge nei dibattiti: «La morfina, se usata corret­tamente dal punto di vista terapeutico può portare grossi benefici». Per questo è importante che la prima co­noscenza l’abbiano appunto i medici, che sia prima di tutto in loro radicata l’impor­tanza del tipo di intervento che si va a fare con il fentanil piuttosto che ossicodone, per citare solo due degli oppiodi comune­mente usati: «La corretta prescrizione di questi – dice ancora Zaninetta – prevede un follow up molto controllato dal medi­co, soprattutto nei primi giorni». Nei giorni scorsi il dibattito ha registrato interventi a favore della diffusione del­l’utilizzo di questo tipo di farmaci anal­gesici per qualsiasi tipo di dolore, anche, banalmente, per una distorsione alla ca­viglia. Il dottor Zaninetta osserva che «al di là dell’iperbole, prima di tutto sia ne­cessario saper usare bene la morfina per curare un tipo di dolore severo. Bisogna prima di tutto usarla quando serve e avere chiaro come usarla». Il professor Zaninetta: per contrastare il dolore si deve mettere in campo un approccio globale ai bisogni del malato.



PS. Non dimenticate di seguire il diario delle vacanze di SUPER GUILIANO !!!

giovedì 27 dicembre 2007

Moratoria!

Appello:
ora la moratoria per l’aborto



Giuliano Ferrara da Il Foglio del 19.12.2007



C’è anche una pena di morte, legale, che riguarda centinaia di milioni di esseri umani. Le buone coscienze che si rallegrano per il voto dell’Onu ora riflettano sulla strage eugenica, razzista e sessista.

Questo è un appello alle buone coscienze che gioiscono per la moratoria sulla pena di morte nel mondo, votata ieri all’Onu da 104 paesi. Rallegriamoci, e facciamo una moratoria per gli aborti. Infatti per ogni pena di morte comminata a un essere umano vivente ci sono mille, diecimila, centomila, milioni di aborti comminati a esseri umani viventi, concepiti nell’amore o nel piacere e poi destinati, in nome di una schizofrenica e grottesca ideologia della salute della Donna, che con la donna in carne e ossa e con la sua speranza di salute e di salvezza non ha niente a che vedere, alla mannaia dell’asportazione chirurgica o a quella del veleno farmacologico via pillola Ru486.
Questi esseri umani ai quali procuriamo la morte legale hanno ciascuno la propria struttura cromosomica, unica e irripetibile. Spesso, e in questo caso non li chiamiamo “concepiti” ma “feti”, hanno anche le fattezze e il volto, che sia o no a somiglianza di Dio lo lasciamo decidere alla coscienza individuale, di una persona. Qualche volta, è accaduto di recente a Firenze, queste persone vengono abortite vive, non ce la fanno nonostante ogni loro sforzo, soccombono dopo un regolare battesimo e vengono seppellite nel silenzio. La pena di morte per la cui virtuale moratoria ci si rallegra oggi è di due tipi: conseguente a un giusto processo o a sentenze di giustizia tribale, compresa la sharia. Sono due cose diverse, ovviamente. Ma la nostra buona coscienza ci induce a complimentarci con noi stessi perché non facciamo differenze, e condanniamo in linea di principio la soppressione legale di un essere umano senza guardare ai suoi motivi, che in qualche caso, in molti casi, sono l’aver inflitto la morte ad altri.
Bene, anzi male. Il miliardo e più di aborti praticati da quando le legislazioni permettono la famosa interruzione volontaria della gravidanza riguarda persone legalmente innocenti, create e distrutte dal mero potere del desiderio, desiderio di aver figli e di amare e desiderio di non averli e di odiarsi fino al punto di amputarsi dell’amore. E’ lo scandalo supremo del nostro tempo, è una ferita catastrofica che lacera nel profondo le fibre e il possibile incanto della società moderna. E’ oltre tutto, in molte parti del mondo in cui l’aborto è selettivo per sesso, e diventa selettivo per profilo genetico, un capolavoro ideologico di razzismo in marcia con la forza dell’eugenetica.
Rallegriamoci dunque, in alto i cuori, e dopo aver promosso la Piccola Moratoria promuoviamo la
Grande Moratoria della strage degli innocenti. Si accettano irrisioni, perché le buone coscienze sanno usare l’arma del sarcasmo meglio delle cattive, ma anche adesioni a un appello che parla da solo, illuministicamente, con l’evidenza assoluta e veritativa dei fatti di esperienza e di ragione.

Per aderire basta inviare una mail a
(noi l'abbiamo già fatto...clicca!...e guarda in alto a destra)

Super-Giuliano
con la moratoria anche una dieta speciale
Diario di una dieta speciale
di Giuliano Ferrara (da http://www.camilloblog.it/)

Una dieta speciale per la moratoria sull’aborto. Perché siano garantiti fondi al movimento per la vita e ai centri di assistenza che lavorano contro l’aborto, come ha chiesto ieri il giornale dei vescovi e come dovrebbero chiedere i giornali borghesi e laici. Una dieta semplice, che consiste nell’assumere soltanto liquidi dalla vigilia di Natale (dalla mattina della vigilia di Natale) al primo dell’anno (alla mattina del primo giorno del 2008). Non lo chiamo digiuno perché sono grasso, sebbene io pensi in generale di essere felicemente grasso e di recente mi senta un grasso molto in forma, orgoglioso di avere lo stesso peso corporeo (quello mentale è un altro paio di maniche) attribuito a Tommaso d’Aquino.
Questa è la mia decisione, e chi voglia associarsi sarà il benvenuto. Non chiamatela testimonianza, perché la testimonianza è sorella del martirio. Chiamatela per quello che è. Una dieta speciale contro l’ipocrisia e la bruttezza di un tempo in cui la morte viene bandita in nome del diritto universale alla vita e blandita, coccolata come un dramma soggettivo, nella spregevole forma, e molto oggettiva, dell’aborto chirurgico o farmaceutico.
Terrò un diario pubblico dalla casa di campagna in cui mi ritiro, lo terrò in questo giornale e, nei giorni in cui non sarà in edicola, nel suo spazio sulla rete (www.ilfoglio.it). Ho consultato il mio medico e mi ha detto che posso fare quel che faccio senza troppi problemi, basta bere molto, dosare le pillole antidiabete ed eseguire qualche banale controllo della glicemia e della funzione renale. Non è un sacrificio eccezionale, tutt’altro. E’ un altro modo di fare festa. E’ una cosa che non mi sarei mai sognato di immaginare nella vita e che in genere mi ispira una tremenda diffidenza: una buona azione. Buon Natale.

sabato 22 dicembre 2007

Auguri !!!

Carissimi amici,

poche parole per rivolgere a tutti voi l'augurio sincero di un Natale sereno e di un nuovo anno pieno di felicità e soddisfazioni.

Andrea, Francesco, Lorenzo


sabato 15 dicembre 2007

Mercoledì 19 dicembre - Incontro MpV

Cari amici,
Vi invitiamo a partecipare mercoledì 19 dicembre al nostro incontro mensile presso la sede di San Remigio alle ore 20, per cenare insieme e poi per discutere del nostro Manifesto che ormai sta per essere approvato dai capoccia di Roma.
Per evitare sprechi vari di cibo e bevande, vi pregheremmo di confermarci la vostra partecipazione con una email a mpvtoscanagiovani@gmail.com oppure con un commento a questo post, e specificando cosa porterete (se potete naturalmente) da mangiare. Per quanto riguarda le bibite e i salati ci pensiamo noi.
Un caro saluto

Andrea, Lorenzo e Francesco

martedì 11 dicembre 2007

Risposta ad un commento sul precedente post

Caro Giacomo Rocchi,
accolgo la sua istanza e prendo visione dei chiarimenti di Mario Palmaro. Dico con sincerità di aver preparato il post immediatamente dopo lo scoppiare della polemica e di aver potuto pubblicarlo solo in un secondo tempo; mi scuso per questo e tolgo quello "scorretto" che potrebbe ingenerare ulteriori polemiche.

Ci terrei però a sottolineare e chiarire la mia opinione, visto che anch'essa potrebbe essere suscettibile di errate interpretazioni.
Credo, e lo ripeto, che in questo momento la nostra posizione, contraria alla legge sull'aborto, sia minoritaria nel nostro paese. Dunque sarebbe controproducente erigere un muro attorno a noi e pretendere solo e soltanto l'abrogazione di una legge, che, ad oggi, raccoglie purtroppo i consensi della maggior parte degli italiani. Detto questo credo che sia indispensabile dunque intavolare un dialogo con chi sostiene la legge, proprio partendo dall'obbiettivo minimo, ossia l'applicazione completa e, sottolineo, corretta, della legge.
Credo che in questo senso l'articolo di Assuntina Morresi sia da apprezzare, se non altro perchè si pone l'intento di aprire un dialogo strategico. Non mi sembra, e su questo mi sento di doverla correggere, che la dottoressa abbia parlato di legge giusta in senso assoluto, ma di legge migliore rispetto a quelle in vigore negli altri paesi europei (eccezion fatta per la Polonia); il che è cosa ben diversa. E credo che su questo si possa convenire con lei. Penso, tanto per citarne una, alla situazione spagnola dove proliferano cliniche private specializzate in aborti, ma si potrebbero citare le legislazioni di Inghilterra, Francia (dove si produce si vende senza troppi scrupoli la famigerata pillola abortiva) o Olanda. Non credo, tanto per intendersi, che la Morresi di fronte all'opportunità di riscrivere una legge contraria in toto all'aborto farebbe opposizione, anzi.

Si tratta di scegliere il male minore, come in occasione del referendum del 2005, dove abbiamo (credo che anche il vostro comitato l'abbia fatto) difeso una legge di compromesso, che tuttavia andava, e va tuttora, contro i principi che professiamo. Una legge che però, in quel momento storico, era la migliore possibile da attuare, per arginare un far west pericolosissimo.
Al di là delle polemiche, che ci possono ovviamente stare, credo che nessuno, nemmeno la Morresi, abbia mai messo in discussione i valori su cui impostiamo il nostro impegno civile. Questo è importante: nessuno ha mai messo in discussione che l'aborto sia un omicidio. Ed è veramente un peccato che il fronte della Vita debba perdere unità e compattezza di fronte ad un'affermazione paradossale, una posizione che mette in discussione strategie e metodi, ma non si sogna nemmeno lontanamente di negoziare il valore indiscutibile del Diritto alla Vita.
Perdere la nostra unità è il regalo più grande che possiamo fare a chi quotidianamente diffonde una cultura di morte. Su questo non credo si possano ammettere obiezioni.
Per questo invito ancora una volta lei, e anche Mario Palmaro, a rileggere l'intervento della Morresi in una chiave diversa. Non sul piano dei valori, ma su quello dei metodi e delle strategie di intervento a livello politico.
Non si preoccupi, caro Giacomo Rocchi, nè si preoccupi Mario Palmaro, non vi lasciamo da soli a difendere la Vita. Le nostre riflessioni sulla vita non sono certo "deboli", non sono certo "deboli" i valori che professiamo, nè diventeranno "deboli", se cerchiamo strategie diverse per diffonderli; magari incuneandosi negli interstizi difficili, ma penetrabili, di una cultura di morte che sembra dominante, ma che, state sicuri, non ci apparterrà mai.

Dunque avanti. Ma avanti tutti insieme, compatti come per il referendum sulla legge 40. Compatti nel sostenere il valore "forte" della Vita. Anche attraverso strade nuove, che magari saranno discutibili e opinabili per alcuni, ma che non possono certo far perdere di vista l'obbiettivo comune di far vincere la civiltà della Vita e dell'Amore.
Ho letto con piacere ed interesse gli spunti offerti dal sito del Comitato presieduto da Mario Palmaro; la invito a fare altrettanto con le rifessioni "forti", che anche noi cerchiamo di proporre nella forma rapsodica del blog.
Con l'auspicio sincero che queste polemiche servano davvero ad arricchire il popolo della Vita e non a dividerlo (come molti del fronte opposto forse vorrebbero), la saluto cordialmente.
Andrea Biotti

domenica 9 dicembre 2007

Completamente d'accordo con lei...

Vi propongo soltanto l'atto primo (dei restanti due atti trovate i link a fondo pagina) di una polemica davvero pericolosa per il fronte della Vita.
Lascio qualsiasi commento al vostro giudizio. Mi permetto di anticipare soltanto due brevi pensieri che mi sono venuti spontanei leggendo i vari atti di questa polemica.


1) Io per primo sono tentato dal fondamentalismo, inteso nel senso buono di credere fino infondo ai propri valori. Qui però non si tratta di rinunciare affatto ai propri valori, si tratta di adottare un sano realismo nella scelta delle strategie per combattere l'aborto ed in questo momento l'atteggiamento più intelligente da tenere è paradossale, ma alla lunga efficace. Dobbiamo "difendere" nei suoi aspetti positivi la Legge 194 ed esigere il suo pieno rispetto. In questo momento chiederne la modifica o l'abrogazione è dannoso: non esistono i presupposti culturali.


2) Non bisogna giocare a chi è più bravo, a chi è più cattolico, a chi è più pro-life. E' il gioco pericoloso e sbagliato (soprattutto se si citano frasi travisandone il significato, sapendo benissimo la posizione e le buone intenzioni di chi le ha pronunciate) di chi cerca qualche consenso, a tutto vantaggio del fronte opposto, quello abortista.






Salvate la 194 dagli abortisti
Non ho cambiato idea, ero e resto pro life. Ma la nostra è una legge dissuasiva, e va applicata fino in fondo. Dobbiamo lavorare perché un giorno non serva più

di Assuntina Morresi (membro del Comitato nazionale di bioetica)


Trent'anni e non sentirli: tanti ne ha la 194, ma ogni volta che se ne parla scatta un botta e risposta tanto prevedibile quanto sincero, e, spesso, profondamente inutile. Il dibattito è rimasto fermo là, alla contrapposizione abortisti-antiabortisti, dove i primi sarebbero i sostenitori della legge, e i secondi quelli che la volevano abrogare, e hanno perso il referendum del 1981. Io sono fra quelli che hanno perso. Avevo quasi diciotto anni. Ho fatto una dura campagna, da militante, faticosa, per noi cattolici parlare in pubblico era difficilissimo, a volte pericoloso. Ero certa che l'aborto fosse un omicidio, e che la sua legalizzazione non avrebbe risolto il problema della clandestinità - sbandierata dai radicali con cifre inverosimili, talmente impossibili che molti di noi credevano sinceramente fosse tutto inventato di sana pianta - e che anzi ne avrebbe fatto un mezzo di controllo delle nascite, un tragico contraccettivo.

Dopo trent'anni non ho cambiato idea. Penso ancora esattamente così. Ma in trent'anni è cambiato il mondo: è crollato un muro a Berlino, è nata Louise Brown, e dopo di lei, come lei, tre milioni di bambini sono stati concepiti in laboratorio, un numero imprecisato di embrioni umani (quanti milioni?) è stato soppresso, perché in sovrappiù, venuti male, o sacrificati in nome della scienza. Insieme alla piccola Louise è arrivata la tecnoscienza.

Negli ultimi vent'anni nel mondo c'è stato un miliardo di aborti. Una cifra agghiacciante. E proprio per la battaglia di trent'anni fa - che rifarei - e per tutto l'impegno pubblico e privato di questi trent'anni nel fronte pro life, dico che è ora di mettere un punto e voltare pagina. E per questo condivido la difesa che ha fatto la dottoressa Patrizia Vergani della legge 194, in un'intervista pubblicata su Tempi, per la quale è stata ingiustamente attaccata. Una legge sull'aborto è necessaria: prima le donne che abortivano erano processate e andavano in galera. Solo loro, s'intende. Non i maschi che le avevano messe incinte. Non si può mandare in galera una donna che ha abortito. E se qualcuno fosse ancora convinto del contrario, sia coerente e ammetta che in galera ci deve andare anche il padre del concepito, se è stato favorevole, o se comunque ha collaborato in qualche modo all'aborto, anche con l'indifferenza (decidi tu, dicono. E se ne fregano, neanche accompagnano in ospedale, e poi ti sbattono in faccia la scusa della tua libertà. Ma quando mai?). Adesso si può fare, c'è l'analisi del Dna, Pater semper certus est, tamquam mater.

Certo, se la potessi scrivere io, una legge sull'aborto, direi che è consentito solo nei casi di grave pericolo di salute e di vita della madre. Ma la 194 non l'ho potuta scrivere io, né chi la pensa come me. È il frutto di un compromesso, come avviene spesso in politica, è stata votata ad un referendum, ed è chiaramente condivisa dalla maggior parte del popolo italiano. Come dice tale Camillo Ruini - difficilmente tacciabile di relativismo o tantomeno di essere una banderuola, su certi temi - «noi certamente siamo contro l'aborto ma non vogliamo modificare la legge. Auspicheremmo soltanto che nell'applicazione della legge si tenga conto il più possibile dell'importanza di favorire la vita».

La legge ha fatto mentalità, ma per cambiarla non si può partire da una nuova legge: bisogna ricominciare a parlare dell'esperienza del materno, di cosa significa essere madre. Bisogna recuperare il senso delle relazioni umane, e dire, come Paola Bonzi del Centro di Aiuto alla Vita della Mangiagalli di Milano, che una donna per accogliere deve essere accolta.

Giù dalle barricate. Nel frattempo è successo qualcosa di cui noi cattolici dobbiamo essere consapevoli: il fronte "abortista" è spaccato. Ci sono gli abortisti veri e propri e i pro choice. Gli abortisti sono quelli per i quali l'aborto è un problema solo a parole, ma poi nei fatti se ne fregano, per esempio vogliono la pillola Ru486 perché così le donne potranno abortire a casa col fai-da-te, e l'embrione e il sangue vanno via con una tirata dello sciacquone, al cesso, senza problemi.

I pro choice, invece, sono quelli che sostengono la 194, ma vorrebbero che le donne non abortissero più. E per questo apprezzano il lavoro dei centri di aiuto alla vita, e ci mandano le donne in difficoltà, li sostengono come possono e a volte ne favoriscono la presenza dentro gli ospedali. Il mio nemico non sono le donne che abortiscono, né la legge. Il mio nemico è l'aborto, e chiunque insieme a me vuole lavorare per diminuirne il più possibile il numero è mio alleato, e il fatto che sostenga o no la legge non mi interessa. Giudico sui fatti concreti. Quante donne hai aiutato perché non abortissero? Di quante ti sei fatto carico? E questo lo chiedo a tutti, cattolici e laici.

La legge 194, pur nelle sue molte ambiguità ed ipocrisie, se correttamente applicata ci permette di avere come alleati contro l'aborto tanti fra quelli che la legge l'hanno voluta. Sì, perché nel suo genere, la 194 è una buona legge, una delle migliori sull'aborto nel mondo. È una legge che vede l'aborto come un fatto negativo, verso il quale assumere un atteggiamento dissuasivo, e comunque da tenere sotto stretto controllo. L'aborto non è un diritto, per la 194, e infatti nel testo non si parla mai di autodeterminazione della donna.

Inizia con la difesa della vita: sana e utile ipocrisia, unica legge italiana che difende espressamente la vita, e, si sa, scripta manent. Non permette che i privati facciano dell'aborto un mezzo di profitto, ed è per questo che solo in Italia non si sono annidate quelle potenti ong (come la Planned Parenthood) che nel resto del mondo - in tutto il mondo - prosperano con le loro cliniche per aborti e contraccezione. Sia detto chiaramente: questo è uno dei principali motivi per cui in Italia gli aborti non sono aumentati, ma un po' diminuiti - meno di quanto si vuole far credere, e sempre troppi. La legge 194 non è eugenetica, non permette la soppressione del feto in quanto malformato, ma solo se questo provoca gravi problemi alla madre.

La prevenzione che manca. Per la 194 gli aborti tardivi (non si parla mai di aborto terapeutico) sono proibiti se il feto ha possibilità (non probabilità) di vita autonoma: se la donna rischia la vita (non la salute) le si induce il parto e si cerca di salvare entrambi. C'è una parte consistente sulla prevenzione, tutta da applicare. Se poi la legge è sistematicamente violata o male applicata, tocca a noi combattere per farla rispettare.

E poi: due anni fa abbiamo fortissimamente difeso la legge 40, che dal punto di vista dell'abortività è molto peggio della 194: per ogni bimbo che nasce da un concepimento in vitro, nove embrioni muoiono, in laboratorio o abortiti. Eppure quella passa per una legge cattolica (e sappiamo bene che di cattolico non c'è assolutamente niente). L'abbiamo voluta, perché era il male minore, il compromesso più ragionevole, e l'abbiamo difesa non andando a votare, seguendo il consiglio della Cei. Perché non utilizzare lo stesso criterio di giudizio per la 194? Insomma, che cosa mi tocca difendere, ma io la 194, oggi e in queste condizioni, non la voglio cambiare, la voglio applicare tutta quanta, e voglio vedere chi veramente è disposto, insieme a me, a lavorare perché un giorno non serva più. Senza stare ogni volta a rimestare cosa abbiamo votato trent'anni fa.



mercoledì 5 dicembre 2007

Salvati con il preservativo: l'enciclica di Livia

Giuliano Ferrara, da "Il Foglio" del 3 dicembre 2007


D'accordo, se faccio sesso a cazzo di cane rischio di ammalarmi. Una volta era la sifilide, adesso è l'Aids. Il governo (Livia Turco, ministro della salute) intende proteggermi. Commissiona uno spot alla signora cultura (Francesca Archibugi, regista). E che dice lo spot? Potrebbe dire, con Agostino: Ama (dilige), e fa' ciò che vuoi. O con Jane Austen: Cercati un marito o una moglie, un compagno o una compagna, concepisci una creatura umana, ama, educa, educati e divertiti. O con Kakà: La castità è una scelta libera e possibile. Ma no, è troppo semplice. Sa di parrocchia. Che cosa volete che sia la salvezza, magari la speranza, di fronte al problema della salute? Ecco dunque la soluzione: Mettiti un preservativo, fagli mettere un preservativo. Il ministero suggerisce «un amore senza rischi», proprio così. L'amore con l'air bag. L'amore con la gomma. Un sesso tecnico. Un altro capitolo del progetto Orgasmus. Poi si lamentano degli stupri, della solitudine, della violenza, dell'indifferenza, queste donne moderne sull'orlo di una crisi di coscienza. La concupiscenza a loro va bene, tutto bene benissimo, e deve esercitarsi al riparo da ogni senso del peccato, parola desueta e insignificante, poco laica. Basta che sia protetta da un palloncino. Mettitelo, e fa' ciò che vuoi. Eviti il rischio di pensare a quel che fai, il rischio di fare un bambino o una bambina, il rischio di entrare o accogliere liberamente l'altro, il rischio dell'amore rischioso che implica qualcosa, il rischio della nudità. Il ministero potrebbe anche dire, via spot: Sta' attento, sta' attenta, il sesso casuale è una ginnastica pericolosa, il corpo libero comporta conseguenze spesso incontrollabili. In mancanza di Paolo e Francesca, la bocca mi baciò tutto tremante, si può supplire con una bella foto di Amanda e Raffaele. Un richiamo rozzo alla responsabilità. Rozzo ma efficace, no? Ma questo è terrorismo moralistico, si dirà. Siamo fuori del senso comune, si dirà. Invece è la perfezione del senso e del luogo comune l'idea che lo stato ti suggerisca di vestire di gomma il pisello, trattandoti come un bambino scemo, incapace di subordinare gli istinti o i talenti alla ragione. I preservativi ci sono. Son stati inventati e sono alla portata di tutti. Gli amanti vedranno che cosa farne. Decideranno loro, caso per caso. Ma chi decide per tutti, chi fa cultura e controcultura, chi ci insegna ogni giorno che lo stato è laico, non sopporta ideologie e invadenze religiose, quale diritto ha di fare propaganda alla cosa più schifosa che sia mai stata inventata, che non è il profilattico o la libera scelta se usarlo o no, ma l'amore profilattico, il sesso senza rischi? «Un messaggio culturale di rispetto per se stessi e per gli altri», dice il ministro. E uno pensa: adesso fa uno spot per dire: Giovanotto, fatti un cuore intrepido e impara ad amare, studiati la questione del piacere, fatti gli occhi giusti per il desiderio, agisci con grazia ché poi c'è il giudizio (come dice il Papa dal buio profondo del medioevo, così lontano dalla luce immensa che illumina la Archibugi). No invece, il rispetto è tecnicamente realizzabile così: Srotola un palloncino colorato, e fa' sesso a coriandolo, come ti capita ma in sicurezza, al riparo da ogni evenienza. Chiaro che poi ci sta bene anche la tolleranza per l'aborto («Vorrei tanto abortire ma non riesco a rimanere incinta» - Sara Silberman), e tanta morfina per una bella eutanasia amorevolmente assistita. Se lo stato è il pronto soccorso del desiderio regolato dall'istinto, se è il farmacista della fregola, se moraleggia a vanvera e controassicura con la gomma il formidabile gesto dell'amore, dove troverò la forza.