venerdì 27 febbraio 2009

Una riflessione su Eluana

Martedì scorso 9 Febbraio tutta l'Italia ha assistito e partecipato alla morte di Eluana Englaro presso la clinica la Quiete di Udine. Durante la sua permanenza in questa struttura, la nazione si è divisa fra due schieramenti, dinnanzi ad un atto che avrebbe, implicitamente, legalizzato l'eutanasia anche nel nostro paese.
Dopo i giorni della protesta e del lutto, è tempo di riflettere lucidamente sull'accaduto, affinché il sacrificio di Eluana non sia stato inutile e la politica affronti seriamente il tema del testamento biologico, tenendo come obiettivo fondamentale la salvaguardia della vita umana come termine imprescindibile.
Scrivo ora alcune mie brevi riflessioni su questa vicenda e sul suo triste epilogo. Su Repubblica in un editoriale, Roberto Saviano affermava che era necessario chiedere scusa al padre per averlo definito "assassino". La pietà e la compassione nei confronti dei familiari che hanno vissuto un tale dramma non vuol dire tacere su quello che è successo. Non vuol dire tacere sul fatto che nella clinica di Udine è stata commessa l'uccisione di un innocente. Eluana è stata uccisa grazie all'assistenza di medici che hanno eseguito un protocollo indegno. Nei giorni della sua agonia mi ponevo una domanda: è possibile che per gli animali quando ormai sono incurabili, per evitare che soffrano troppo si faccia uso di iniezioni letali, mentre per un essere umano si attui un protocollo che prevede la morte per mancanza di cibo? Sarò forse cattivo ma di fronte a queste situazioni di sofferenza, viene da pensare che forse sarebbe stato meglio fare un'iniezione letale così da evitare un calvario tanto atroce; ma così tutti avrebbero capito il vero obiettivo: l'eutanasia. Ma in tutta questa confusione, quello che passa sotto silenzio è che le precauzioni e le attenzioni per evitare la sofferenza si attuino negli animali e non negli uomini. Anche un distratto capirebbe che il padre di Eluana è stato ed è un uomo solo, circondato da persone malvagie che lo hanno reso propugnatore della libera morte. Ma è ancora più vero sottolineare che questa vicenda ha fatto conoscere tante testimonianze di genitori, purtroppo soli anch'essi, che però curano i loro figli in situazioni gravi con grande amore. Le lettere di questi padri e madri che esortavano il signor Beppino a tenere in vita la figlia portano alla commozione coloro che sanno ancora commuoversi per le cose che contano davvero. Ora occorre fare presto affinché anche nel nostro paese si colmi questo vuoto legislativo, ma soprattutto affinchè queste persone siano davvero aiutate e si sentano meno sole e disperate.

Lorenzo C.

giovedì 26 febbraio 2009

Ritiro Spirituale

Carissimi,

nel marzo di 35 anni fa, a Firenze, nel Monastero di Santa Marta, furono gettate le basi del primo Centro di Aiuto alla Vita d’Italia. Da allora i problemi, gli impegni, i centri, i servizi, i movimenti sono molto aumentati. Oggi ci avviamo verso un riordinamento e un potenziamento che saranno oggetto della prossima Assemblea Nazionale di Cianciano* (28-29 marzo 2009).

La nostra confermata “laicità” non contrasta con la Fede cristiana in Dio Creatore per amore – in Gesù, salvatore, “Via , Verità e Vita”; in Maria, madre della vita. Di qui, per i credenti, la convinzione che la causa della vita è la causa stessa di Dio, senza l’aiuto del quale “nihil potestis facere” (non si può far nulla); la necessità della preghiera; la speranza che il nostro impegno per la vita sia la risposta ad una autentica vocazione. Perciò, a chiusura del Triennio ed in preparazione dell’Assemblea Nazionale è bello pregare insieme nel luogo in cui il MPV è nato.

Abbiamo organizzato dalle ore 12 del 27 febbraio alle ore 15 del 1 marzo, nel Monastero di Santa Marta, due giornate di “preghiera, adorazione eucaristica e amicizia tra noi” che saranno guidati da P. Angelo Del Favero, uno dei fondatori del CAV di Trento, medico, fattosi sacerdote carmelitano dopo aver, da laico, acquisito l’esperienza professionale e di operatore di CAV. “Inviati ad annunciare la vita”: questo sarà il tema generale dell’incontro che si svolgerà in tre tempi:

  1. Isaia, un profeta in movimento per la Vita

  2. Meditazione contemplativa del Vangelo dell’Annunciazione

  3. Dare la vita per la Vita.

Per l’intera partecipazione, in ambiente estremamente confortevole, il prezzo è di € 100,00.

Mi rendo conto delle difficoltà. Mancano pochi giorni all’appuntamento; proprio in quei giorni si svolgeranno alcune assemblee regionali; la successiva assemblea nazionale (e il precedente Consiglio nazionale del 21-22 febbraio) impongono già viaggi onerosi. D’altronde i posti a disposizione a Santa Marta sono soltanto 50 in camere doppie (se qualcuno desidera la camera singola cercheremo di accontentarlo, ma ci sono difficoltà). Ci pare, però, così alto il valore reale e simbolico dell’iniziativa che non vogliamo rinunciarvi. I presenti, anche se pochi, si sentiranno uniti spiritualmente ai molti dispersi in tutta Italia e i molti che non potranno partecipare attraverso la preghiera in quei giorni contribuiranno a costruire uno spirito di unità orante.

Naturalmente occorre un minimo di organizzazione. La quota potrà essere versata all’arrivo, ma è necessaria entro il 24 febbraio, la prenotazione telefonica (presso Giuliana 339.8858485) o per fax o e-mail presso il mio ufficio (Fax 055.587509 – e mail: carlocasini@gmail.com). Dato il numero limitato di posti non potremo prendere in considerazione più di 50 prenotazioni.

So che prenderete sul serio questo invito

Cordialmente

Carlo Casini

P.S: I partecipanti di Firenze e dintorni possono contattare direttamente la nostra segreteria (055 268247, ore 09.00-12.00); chiaramente non è prevista una quota di partecipazione se non si pernotta al convento. Le suore sono disponibili a servire fino a 20 pasti per coloro che non pernottano, al prezzo di 15€.

martedì 24 febbraio 2009

Eluana due settimane dopo. Il silenzio, le gazzarre, i benpensanti. E quelli che magnano alla faccia dei digiuni

...Attorno all’agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida - «assassini», «boia», «lasciatela a noi»... (Enzo Bianchi, La Stampa, 15 febbraio 2009)

Anche noi abbiamo fatto silenzio: la morte di questa ragazza lo meritava. Durante questi giorni abbiamo pregato in compagnia e da soli, ad alta voce e in silenzio. Abbiamo chiesto a Dio di alleviare le sofferenze di Eluana e poi di accoglierla tra le sue braccia. Gli abbiamo chiesto di sostenere tutti coloro che con le loro famiglie vivono o hanno vissuto un'esperienza simile. Abbiamo pregato per chi ha sbagliato, perché possa capire, e per tutti noi perché possiamo capire meglio. Non solo i benpensanti hanno fatto silenzio, non solo loro hanno pregato.

Per questo c'è da apprezzare Enzo Bianchi, il Priore della Comunità di Bose, quando chiede il silenzio e la preghiera. Per altri aspetti c'è da apprezzarlo un po' di meno. Se quel "boia", infatti, scritto contro Beppe Englaro è del tutto censurabile, e quell' "assassini" (riferito ai cattivi consiglieri) forse lo non lo sarebbe del tutto, quel "lasciatela a noi" pronunciato dalle suore che hanno assistito Eluana per una quindicina di anni è soltanto un atto d'amore e di fede. Non è violenza verbale, non stride affatto con la fede cristiana, ma è frutto del silenzio abitato dalla loro fede e della loro fedeltà alla terra e all’umanità di cui sono parte. Se noi tutti abbiamo imparato qualcosa da questa storia lo abbiamo fatto grazie a tutti coloro che sostengono e amano giorno dopo giorno figli, genitori, amici e conoscenti in stato vegetativo. Accusando le suore si accusano tutte queste persone, si fa violenza verbale contro di loro e si dà un cattivo esempio di carità cristiana e di laica solidarietà.

Forse si dimentica che Gesù Cristo era forse più un "rivoluzionario" che un ascetico stilita, che era tanto mite quanto appassionato e coraggioso nel dire la Verità. Cristo  non ebbe problemi a fare piazza pulita dei mercanti dal tempio oppure a bollare come "ipocriti" gli scribi e i farisei. E non credo che fosse molto calmo e conciliante in quei frangenti. Ma questa è un'altra storia, anche se forse serve a farci capire che non c'è proprio niente di male nel chiamare le cose con il loro nome. Eluana è stata fatta morire di fame e di sete: nessuna violenza verbale, nessuna mancanza di rispetto, solo una verità che sentiamo il dovere di dire. Gazzarra indegna della stile cristiano (stile !?!?!? facciamo "style", magari è chic come La Stampa) forse c'è stata, ma ancor più indegno e assai poco cristiano mi sembra far morire una persona di fame e sete. Ma su questo è meglio tacere.

Per chiudere, due brevissime esortazioni per il bravissimo Enzo Bianchi, con il quale non si potrà essere d'accordo su certe cose, ma che merita sincera ammirazione per il modo in cui anima la sua Comunità.

Primo. Sono sicuro che chi ha scritto "Beppino boia" debba le sue più grandi scuse al signor Englaro. La frase, ripeto, è intollerabile. Ma le sue piccole scuse le dovrebbe anche Enzo Bianchi alle suore di Eluana: forse anche lui, dopo aver curato la ragazza per 15 anni, avrebbe fatto la stessa proposta al padre, senza per questo essere accusato di lesa maestà.

Secondo. Mentre noi, martedì 10, stavamo pregando per Eluana all'indomani della sua morte, a Villa Campeis, in località Fraelacco di Tricesimo (via San Vito e Modesto) l'Avvocato Campeis, legale della famiglia Englaro, offriva una lussuosa cena con camerieri in guanti bianchi per ringraziare i giornalisti "amici" (vd. Il Giornale - Avvenire).

Chissà cos'avrà detto Enzo Bianchi al giornalista de La Stampa che vi aveva preso parte. Forse lo avrà rampognato severamente, oppure gli avrà solo detto "pro sit": dopo tutto anche a bocca piena si sta in silenzio.

Noi nel frattempo, dopo che per giorni avevamo denunciato con fermezza e rispetto una palese ingiustizia, stavamo pregando. Secondo lo "stile cristiano".

Andrea

lunedì 23 febbraio 2009

Incontro mercoledì 25 febbraio, ore 21

Cari amici,

vi invitiamo tutti a partecipare alla riunione di mercoledì 25 febbraio presso la nostra sede di San Remigio alle ore 21,15, in cui discuteremo dei programmi per il futuro (vedi in particolare il ciclo di incontri su Libertà e responsabilità) e ci divideremo il materiale da distribuire per diffondere il più possibile i prossimi appuntamenti.
Vi aspettiamo numerosi!

lunedì 9 febbraio 2009

Martedì 10 a Firenze. Veglia per Eluana

In relazione ai drammatici fatti nazionali che riguardano la sacralità della vita e anche il senso umano dell'esistenza, il Movimento per la Vita fiorentino, insieme con Sienza&Vita e i gruppi di preghiera di Padre Pio, ha organizzato per martedì 10 febbraio una veglia di preghiera comunitaria presso la chiesa di San Remigio, con Santa Messa alle ore 18,00 e successivo momento di preghiera e recita del Rosario.
Siete tutti invitati a partecipare e a diffondere la notizia presso i vostri conoscenti.

sabato 7 febbraio 2009

Mi gira la testa

Stamattina apro internet e mi metto a fare il mio solito giro di siti: Repubblica, Giornale, Corriere, Avvenire, blog di amici, siti di Fiorentina, Facebook. A parte qualche sporadica riflessione sensata, da tutte le parti, anche sui siti di calcio, si è persa la misura delle cose. E la misura è una sola, da qualsiasi parte si voglia girare: ad una persona stanno togliendo pane e acqua e tra un paio di settimane morirà per questo. Basta.

Leggo i commenti della gente e sembra che il problema più grande sia l'ingerenza della Chiesa cattolica, che il paese sia irrimediabilmente spaccato a metà tra laici e cattolici, che Berlusconi si appresti a fare un golpe in grande stile ed amenità varie.

Invito tutti ad uscire dagli schieramenti di appartenenza, ammesso che ce ne siano e a vedere i dati di fatto, uno ad uno, analizzandoli razionalmente. L'ideologia, laicista o integralista, rossa o nera, terrorista o pacifista, finisce sempre per essere uguale a se stessa: lontana dall'umanità, lontana dal buon senso, lontana dalla logica.

Andiamo per punti.

1) Eluana si trova in stato vegetativo. La scienza non dà spiegazioni su ciò che un individuo può sentire, sulla sua percezione del mondo esterno, sui suoi sentimenti, le sue impressioni, le sue visioni. La scienza non dà risposte, ma esistono alcune persone che si sono risvegliate da questo stato dopo 2, 5, 10 anni e tutte raccontano che erano in grado di percepire il mondo esterno. Molti di loro ricordano le persone che le hanno visitate, addirittura ricordano alcuni discorsi, alcuni nomi pronunciati oppure fatti accaduti mentre erano in stato vegetativo. Perché non credere loro? Perché continuare a pensare che il battito delle ciglia è solo un riflesso meccanico e non un segnale volutamente inviato al mondo esterno, come nel caso di Salvatore Crisafulli.

2) Eluana aveva affermato in vita che in una situazione come la sua di adesso, avrebbe scelto di morire. Il padre ne è sicuro, ma non esiste nulla di certo. Ascolto a Matrix le parole della sua migliore amica e mi colpiscono due argomenti. Eluana era una piena di vita, sempre attiva, sempre in moto, per lei esisteva solo bianco o nero, e dunque non avrebbe mai accetato una vita non vissuta a pieno. Ma quante persone sono così, attivi solari gioiosi, spigolosi e irruenti, eppure sceglierebbero comunque di vivere; ed anzi, proprio un carattere così positivo potrebbe davvero aiutare a superare una condizione difficilissima come la sua. E poi, sempre l'amica riporta un'episodio a suo parere decisivo per stabilire definitivamente la volontà di Eluana: un giorno le raccontò di essere stata in chiesa e di aver pregato perchè un amico, in condizioni disperate dopo un incidente, morisse e finissero al più presto le sue sofferenze. Bene, lo confesso, anche a me è capitato di fare lo stesso, ma non per questo se fossi in stato vegetativo, chiederei di lasciarmi morire.

3) Eluana morirà di mancanza di cibo e di acqua. Morirà come Terry Schiavo, morirà in un modo in cui nessuno vorrebbe mai morire. Alcuni medici dicono che comunque è il modo migliore per morire, ma come possiamo assolutamente fidarci? Infatti, nonostante per loro sia questo un modo indolore di morire e nonostante ritengano che Eluana non senta nulla di nulla, intanto la riempiono lo stesso di sedativi. Perché? Forse perché non sono sicuri di tutto questo, e dall'altra parte della barricata altri medici dicono che sia un modo atroce di morire, perché probabilmente davvero soffrirà.

Non c'è nulla di certo in questo strana storia. Non siamo sicuri della volontà di Eluana, non siamo sicuri della totale incoscienza e insensibilità, non siamo sicuri se soffrirà o meno, senza pane nè acqua. Non si sa. Eppure si sceglie per la morte. E per la peggiore delle morti.

Questa è la realtà.

Ma tutti sembrano scordare tutto. Tornano le sarabande politiche, tornano le giaculatorie laiciste, torna Berlusconi e il suo codazzo ti antiberlusconiani che lo mettono alla berlina. Anche questa storia sembra affare di destra e di sinistra, di ateismi e clericalismi. Non è così, è solo il solito modo di mascherare le cose. Ma le cose non solo le si mascherano, le si rovesciano in un carnascialesco balletto di sentenze. Incuranti delle cose, incuranti della realtà, solo smodatamente vanitosi davanti allo specchio delle prorpie opinioni.

Mi riferisco alla Palombelli, alla nostra Carla Bruni vizza e intellettualprogressista, o se volete, alla nostra Colombina, la moglie sempre in scena di un marito sempre in disparte. Ieri sera ha detto di non capire tutto questo accanimento per la vita, questa paura della morte, questo voler rimanere attaccati a tutti i costi a qualcosa che dicono non ci sia più. A me questo modo manicheo di vederla mi spaventa: mezza vita, grazie meglio niente. O tutto o niente. E' facile per noi borghesi piccoli piccoli parlare: noi che alla fine della giornata abbiamo sempre la pancia piena, che risolviamo i problemi con il conto in banca, che la cosa peggiore che può capitarci è non uscire il sabato sera, avere il mal di testa il venerdì, perdere in casa con il Lecce o pagare una multa per 180 in autostrada. Io non parlo, perché forse appartengo a questa categoria. Ho anch'io la pancia piena, ma so che un giorno potrebbe essere vuoto. Ho la pancia piena ma mi sforzo di pensare ad una vita nella sofferenza, nella malattia, nel dolore: mi sforzo di pensarla vita umana, di un'umanità diversa, probabilmente superiore. Non disumana, come ha detto Beppino, la sofferenza, che ci piaccia o no, non è mai disumana, è parte integrante del nostro essere uomini. Mi sforzo di pensare che la sofferenza non si cancella con la morte, ma provando a curare le ferite, a trasforamarle in piccole e preziose gioie, molto più grandi dei piaceri delle nostre pance piene.

Io non rispondo a Colombina, non sono in grado. Lascio rispondere chi ne sa più di me, chi ha deciso di trasformare la sofferenza in gioia, la morte in vita, il male in bene. Lascio rispondere chi un giorno ha visto la sua pancia improvvisamente vuota e ha deciso di riempirla con qualcosa di meglio che le partite la domenica, i poker con gli amici, le gitarelle all'outlet e tutte quelle straordinarie cose a cui si dice non valga la pena di rinunciare mai.

Leggete questa storia e poi ditemi se è accanimento o amore.

Andrea

Gabriele, la vita più preziosa

da Speciale di Avvenire

«Incompatibile con l’esistenza», dissero i medici ai genitori quando nacque. E loro allargarono braccia e cuore: «È un figlio. E lo ameremo per sempre»

Le fotografie di Gabriele sono dappertutto. In cucina, nella camera dei fratelli, in soggiorno. Martina e Roberto lo fotograferebbero di continuo, il loro piccolo. Così come conservano con gelosia ogni oggetto che gli appartiene: il primo ciuccio, i calzini che ha usato nella culla termica, la tutina con la quale è stato battezzato, il berrettino che ha usato la scorsa estate in montagna. Ogni istante dell’esistenza di Gabriele è prezioso. Perché potrebbe essere l’ultimo. Ecco cos’è quel collezionismo dei genitori che in altre condizioni sarebbe quasi eccessivo: è il desiderio di rendere prezioso ogni istante, di tenere con sé più tracce possibili di lui, come a prepararsi una miniera di ricordi. I ricordi di tutta una vita concentrati in pochi mesi.
Gabriele è un bambino fragile. Attaccato alle macchine per respirare e per nutrirsi, vive nonostante tutto: nonostante la mamma avesse ricevuto pressioni per abortire. Nonostante le statistiche mediche dicano che con la Trisomia 18 la speranza di sopravvivere non vada oltre qualche mese. Nonostante un paio di crisi gravi durante le quali tutti si erano preparati al peggio. Gabriele, miracolo vivente dell’amore, oggi ha quasi un anno e mezzo e abita a Sandon di Fossò, un gruppo di case nell’intrico di stradine della piatta campagna tra Padova e Venezia. La sua culla è addossata a una parete nella camera dei genitori, il letto matrimoniale è insieme fasciatoio, palestrina per i giochi, luogo degli abbracci di mamma e papà e dei fratelli, Francesco e Chiara. Gabriele è più piccolo della sua età, la malattia, oltre agli organi interni, colpisce anche la crescita. A vederlo, è un bambino poco più che neonato: sorride, segue con lo sguardo i movimenti di chi lo va a trovare, agita le braccia. Il suo corpicino trae vita dalle macchine: il respiratore, collegato ai tubi della tracheotomia, e il sondino per l’alimentazione che entra direttamente nello stomaco. “I medici che vengono a visitarlo si stupiscono della sua vitalità: va contro ogni evidenza scientifica, ci dicono”, osserva la mamma, Martina. “Ma noi lo conosciamo, il segreto di Gabriele: è l’amore che riceve, un amore che contribuisce alla sua risposta positiva”.
Coraggiosi, i genitori, ma non eroi: “Occuparsi di Gabriele non è una passeggiata, non lo è mai stato fin da quando, in gravidanza, l’ecografia aveva evidenziato un problema al cuore”, ricorda Roberto Zanta, il giovane papà che fa l’operaio alla Mediagraf di Noventa Padovana e che alla sua azienda e ai suoi colleghi è riconoscente perché da quando è nato il terzogenito lo hanno esonerato dai turni notturni accorciandogli anche la settimana lavorativa.
Dopo l’ecografia, i medici spingevano per l’amniocentesi, ma Martina e Roberto non ne hanno voluto sapere. In arrivo c’era un figlio, esattamente come lo sono i precedenti due, e l’anomalia al cuore, dopotutto, si poteva correggere alla nascita. Così non è stato, perché Gabriele oltre ai problemi già diagnosticati aveva una malattia genetica, la Trisomia 18, che vuol dire malformazioni a vari organi interni e dunque compromissione delle funzioni vitali. “Quando, dopo la nascita e le analisi genetiche, ci hanno detto che il piccolo era affetto da Trisomia 18, all’ospedale di Bologna, medici e infermieri erano tutti in imbarazzo. Noi per un attimo abbiamo vacillato perché avevamo capito cosa ci aspettava. Però l’amore per lui no, non è diminuito: lui è nostro figlio, la malattia non ha cambiato nulla. Anche se la sua vita non è come quella degli altri bambini della sua età, lui è un membro della nostra famiglia e noi continueremo ad amarlo anche oltre il suo ultimo respiro”, continua Martina, gli occhi ora lucidi dalla commozione ora accesi da una tenerezza gioiosa. “E’ stato subito chiaro, per noi – riprende Roberto – che la vita di Gabriele è nelle mani di Dio. Sappiamo che oggi è qui e che tra un istante potrebbe non esserci più. La sua vita è questa, lui conosce solo questa. E con il nostro amore vogliamo che lui capisca che anche se è attaccato a una macchina la sua vita è per noi un dono grandissimo. Sappiamo che lui lo sa però vorremmo gridarlo al mondo: Gabriele per noi è importante e siamo disposti a dare tutte le nostre forze per lui”.Non è stato facile. Non è facile. Gabriele ha bisogno di medicazioni, la giornata è scandita dall’aprire e chiudere la macchina che gli fa arrivare il latte nello stomaco. “Fin dall’inizio ci è sembrata una cosa più grande di noi – ammette Roberto -. Ma non volevamo cedere alla paura di non farcela. Lo dovevamo a lui e ai suoi fratelli”.
“Ma perché proprio a noi?”, è una domanda che Roberto e Martina si sono fatti. La risposta è nella loro vita: da 8 anni i coniugi Zanta appartengono alla Comunità di Villaregia come sposati missionari. Il loro modo personale di portare il Vangelo tra la gente è anche questo: far apparire l’ordinario – l’amore a un figlio malato – straordinario in tempi di rifiuto della fatica e della sofferenza. In tempi di scorciatoie come l’aborto. Gli amici della Comunità dicono che il Signore voleva una famiglia speciale per un bambino speciale e ha scelto loro perché se Gabriele fosse arrivato altrove, ora non sarebbe qui. E’ vero: Gabriele è nato mentre la stragrande maggioranza dei bambini affetti da anomalie genetiche diagnosticate in gravidanza non ce la fa perché i genitori decidono di abortire. E oggi Gabriele vive ben oltre i suoi limiti fisici grazie a tante persone – i genitori, i fratelli Francesco e Chiara, gli amici del paese e della Comunità – che hanno creduto in lui. Nessun accanimento, nella tenerezza che circonda Gabriele: i medici dell’Ospedale di Padova e i genitori hanno stabilito un’alleanza. Il piccolo sarà curato, accudito, ma quando sarà il momento per lui di lasciare questo mondo, se ne andrà in pace, non sarà trattenuto a forza con terapie sconfinanti con l’accanimento. Nella certezza che qui in terra resterà l’impronta di Gabriele. I suoi fratelli Chiara e Francesco, i vicini di casa, i colleghi di lavoro, gli amici della Comunità, i medici e gli infermieri che con tanto affetto e professionalità lo hanno seguito a partire dalla nascita hanno visto in lui – concreti, reali - i miracoli che l’amore, da solo, può compiere. E nessuno lo dimenticherà.


Il commento

LA NOSTRA SOCIETA’ SPAVENTATA DALL’HANDICAP
di Carlo Valerio Bellieni

La storia del piccolo Gabriele mostra che oggi diventa eroico quello che dovrebbe essere normale, che amare il proprio figlio malato è un gesto sovversivo e rivoluzionario, degno di essere messo tra le icone degli avvenimenti che cambiano la storia. Eppure Gabriele aveva un nome da quando i genitori si sono accorti di lui e non potevano perdere lui se non perdendo parte di sé. L’hanno amato, anzi hanno sollevato il loro amore sopra metri di pregiudizi e fatica. Ma senza sentimentalismo: quello che qui leggiamo è l’uso della ragione e del cuore, binomio inscindibile, che attende in questo caso come in tanti altri un riconoscimento culturale, sociale ed anche economico dallo Stato, per non lasciar vincere la fatica e la cultura della fuga che questi genitori combattono giorno per giorno, anche per noi.
La storia della famiglia Zanta dimostra anche che non esiste nulla di eticamente neutro in medicina. Scrivo questo pensando all’uso della analisi genetica in gravidanza e al pericolo che possa diventare una semplice routine, finendo poi con lo scivolare verso un’inconsapevole forma di “rito” di ricerca e celebrazione della perfezione nel figlio.
Purtroppo la diagnosi prenatale genetica (la ricerca di malattie come le trisomie tra cui la sindrome di Down) sta diventando uno screening, cioè si fa di routine o attraverso l’indagine dei fattori di rischio o con il prelievo e l’esame del liquido amniotico o dei villi coriali. E ciò è particolarmente inquietante, perché fa entrare nella mentalità di tutti, spesso in buona fede, che il primo passo da fare sia “accertare” la normalità del bambino e non invece “accettare” il fatto che lui (o lei) ci siano. Non è un caso che in Europa nascano sempre meno bambini con anomalie cromosomiche, ad esempio la sindrome di Down: nel 1999 uno studio internazionale mostrò che il 90% circa dei bambini diagnosticati prima della nascita con sindrome di Down vengono abortiti, così come il 60% di quelli diagnosticati con sindrome di Klinefelter (alta statura, rischio di incapacità riproduttiva e di moderato ritardo mentale). Valori percentuali intermedi spettano ai bambini con spina bifida.
Non è un caso che intorno alle malattie genetiche crescano fortissimi pregiudizi. E non solo genetiche: gli autori di uno studio sull’ernia diaframmatica congenita (una malattia polmonare operabile alla nascita) spiegano che, anche se la sopravvivenza è dell’80%, la maggior parte dei bimbi con ernia diaframmatica diagnosticata prima della nascita vengono abortiti. Forse – concludono li autori - se si spiegassero meglio i fatti ai loro genitori, il loro atteggiamento di paura e rifiuto cambierebbe.
Vale la pena ricordare che la diagnosi prenatale genetica si esegue sul bambino, non sulla mamma, e dunque l’esame deve (dovrebbe!) essere nell’interesse del bambino, cioè del paziente per conto del quale i genitori hanno richiesto l’esecuzione dell’esame. Non è pensabile fare un esame su “A” nell’interesse di “B”, soprattutto se da questo esame “A” viene esposto a rischi (per esempio al rischio che dal risultato si decida di abortirlo). Spesso anche i rischi dell’indagine genetica sono sottovalutati: nel settembre 2008 in Gran Bretagna si è saputo che ogni anno 600 bambini sani sono “persi” come effetto collaterale dell’amniocentesi e della villocentesi.
Esiste nella società occidentale un’incapacità di affrontare la malattia, ma anche di affrontare la gravidanza: e da questa doppia incapacità si generano disastri sociali. C’è certo un problema serio di assenza dello Stato e dei responsabili dell’educazione, che spesso non sono in grado di spiegare la disabilità se non con la categoria della “tolleranza” (sinonimo di superiorità malcelata) e la malattia se non con quella di un vago sentimentalismo; ma la nostra società è malata di handifobia, un atteggiamento che di fronte all’idea della malattia fugge, invece di affrontarla, e che non capisce, come invece insegnano tanti disabili, che fa più paura la realtà immaginata della realtà reale. Il problema non è la malattia di cui si soffre, ma lo sguardo che il malato sente su di sé. Uno sguardo di stima e di fiducia, come è il caso del piccolo Gabriele, oppure di abbandono.

venerdì 6 febbraio 2009

Le ultime speranze nelle voci di chi grida ELUANA VIVE !

La soluzione finale sta cominciando in queste ore ed in queste ore il Movimento per la Vita, e con esso tutti quanti hanno a cuore la causa della vita, ha deciso di osservare un digiuno per stare accanto ad Eluana. Non uno di quegli astiosi, bizzosi e vittimistici scioperi della fame che abbiamo dovuto sorbirci in questi anni; alcuni giusti, molti sbagliati, quasi tutti buffoneschi. Lo spirito è diverso: è vero, siamo molto incazzati, ma accanto alla rabbia non c'è l'esibizionismo, l'acredine, il rancore; c'è un dispiacere profondo e soprattutto il bisogno di condividere almeno un po' questa sofferenza inflitta ingiustamente.

Il desiderio di tutti di noi è che adesso, se davvero sarà attuata questa maledetta soluzione finale, Eluana non senta davvero dolore. Adesso più che mai vorremmo forse credere ai dottori saccenti e un po' ignoranti che sostengono puntigliosamente che Eluana non è in grado di sentire la fame e la sete. Ce lo dicono, ce lo vogliono far credere, somministrano anche a noi questo striminzito palliativo. Ma un dubbio ha percorso le loro incrollabili convinzioni scientifiche, imponenti e malferme come giganti dai piedi d'argilla.

Eluana verrà sedata come se provasse dolore: si applica un principio di precauzione. Ma è un dito dietro al quale nascondersi e cautelarsi. Dov'era il principio di precauzione quando un giudice ha deciso che davvero Eluana espresse a suo tempo una ferma volontà di non vivere in uno stato come questo; quando ha sentanziato che lo stato vegetativo è assolutamente irreversibile e definitivo; quando ha affermato che Eluana vive in uno stato di totale incoscienza; quando si è detto che è morta 17 anni fa. Chi lo può dire? La scienza non sa, ma decide lo stesso. La scienza non sa, ma non contempla il dubbio, o meglio, nel dubbio sceglie la morte: non lascia porte aperte, decide. Ed è una decisione finale, questa si, assolutamente irreversibile.

Oggi e domani saranno giorni di flebili speranze, appese alle coscienze di chi ancora può dire la sua in questa triste storia. Magari tra due giorni potremo sperare che Eluana non senta nulla, che sia davvero totalmente incosciente; possiamo sperare che non senta quelle mani che gli strappano pane e acqua. Tra due giorni sarà diverso: oggi c'è tempo ancora per la speranza, tempo per gridare ancora che ELUANA VIVE, sperando che qualche coscienza, di fronte a tanta insistenza, tenda una mano.

Andrea

Quella tosse squassa le prime coscienze

Lucia Bellaspiga (da Avvenire.it)

Mettiamoci nei suoi panni: un viaggio allucinato e allucinante. Di notte, su un’ambulanza, lui e lei da soli, costretti dallo spazio angusto a una vicinanza che non era mai avvenuta prima, per ore uno in compagnia dell’altro, muti in due silen­zi diversi. Vicini, terribilmente vicini. Si so­no incontrati così, Eluana e il dottor Ama­to De Monte, e lui ne è uscito «devastato»: per l’aspetto di Eluana – si è detto e ha fat­to intuire lui stesso, ma senza spiegarsi mai troppo, lasciando vaghi i contorni della sua «devastazione» – o forse per qualcos’altro che in quel viaggio gli ha ingombrato l’a­nima come un fastidio sottile e insistente, che lui ha voluto scacciare ma ogni tanto ancora gli torna? Va, l’ambulanza, incrocia gocce di acqua e neve e i fari di altre vite viaggianti nella notte, ignare di quel carico di vita tra­sportato a morire, mentre Eluana dorme, perché questo fa di notte, da molti anni. Avrà vegliato, invece, il dottor De Monte, e quante volte avrà guardato quel sonno forse un po’ agitato dalla mancanza di un letto, sempre lo stesso da quindici anni, del tepore di una stanza, dei rumori e de­gli odori sempre uguali e rassicuranti, del­la carezza frequente di una suora? Poi è arrivata l’alba e un cancello si è inghiotti­to Eluana, nessuno l’ha più vista se non i volontari e il medico, ancora lui, tacitur­no con i giornalisti, scuro in volto, sempre frettoloso, anche la sera quando si allon­tana pedalando sulla bicicletta per le stra­de di Udine.
«Eluana è morta diciassette anni fa», ave­va detto in quell’alba di martedì scorso, la­sciando con sollievo l’ambulanza e quella strana compagna di viaggio che l’aveva de­vastato, lui, medico anestesista e rianima­tore che chissà quante ne deve aver viste in vita sua... Ma dopo una notte ne segue sempre un’altra, e un altro confronto con Eluana, che morta non è e quindi si agita... Passa la prima notte, la seconda andrà me­glio – si dice il medico – ma così non è, per­ché Eluana non pare più la stessa, poche ore fuori casa e qualcosa è già cambiato. Tossisce, Eluana. Tossisce?
Sì, tossisce, e di una tosse che squassa i suoi (forti) polmoni ma forse di più l’udito e le coscienze di chi l’ascolta e non sa che fare. Tossisce, si scuo­te, quasi si strozza e intanto, proprio come farebbe ciascuno di noi, tende e tirarsi su, cerca aria, solleva le spalle ma non riesce. Dove sono quelle mani che a Lecco sape­vano sempre cosa fare? Perché non accor­re chi immediatamente compiva quel pic­colo gesto che dava sollievo? Eluana tossi­sce sempre più, una tosse che accenna ad essere ribellione di un corpo, che è richie­sta, che è grido. Una tosse che, beffarda, sembra fare il verso a chi dice 'Eluana è morta diciassette anni fa': no, un morto non si agita nel letto sconosciuto. Gli infermieri-volontari provano di tutto, ma appartengono all’équipe di De Monte, conoscono a memoria il protocollo per far­la morire, che ne sanno ora dei piccoli ge­sti che sono propri di una vita, di quella vita? Come si gestisce una «morta» che fa i capricci e nel solo modo che conosce pe­sta i piedi? Dovevano essere devastati an­che loro, l’altra notte, se alla fine si deci­dono a fare il fatidico numero di Lecco e con nuova umiltà chiedono al medico cu­rante di Eluana: come facevate a farla sta­re bene?
Il dottore deve aver provato a spie­gare come mai in quindici anni non era stato necessario aspirare il catarro (l’incu­bo dei disabili come lei), avrà indicato al collega le mosse da fare, ma il resto non poteva spiegarlo: accarezzatela, osservate il suo respiro e ascoltate il battito del suo cuore – si erano tanto raccomandati da Lecco quella notte lasciandola partire per Udine –, sono i tre elementi che vi porte­ranno ad amarla... Ma questo nel proto­collo non sta scritto e nessuno lo può in­segnare. Questo raccontano tra i sussurri dalla «Quiete», la casa di riposo in cui la notte è passata agitata un po’ per tutti. Inutile invece chiedere conferme alla cli­nica di Lecco: medici e suore hanno giu­rato silenzio e quella è gente che ha una so­la parola. Tacciono e pregano. Ma a Udine avevano giurato sul protocollo di morte, mentre quella tosse di vita «devasta» già le prime coscienze.

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L'appello di suor Albina «Guardatela, vi accorgerete che vive»

Paolo Lambruschi (da Avvenire.it)

«Ascoltate il battito del cuore di Eluana, osservate il suo respiro, accarezzatela. Vi accorgerete che è viva, che è una persona viva. Non un caso clinico». L’ultimo appello per Eluana Suor Albina Corti lo indirizza ai sanitari della casa di riposo «La Quiete» di Udine, dove la giovane donna è stata ricoverata dopo che il padre l’ha prelevata dalla casa di cura «Beato Talamoni» di Lecco. Una replica indiretta ad Amato De Monte, il medico che ha viaggiato verso Udine in ambulanza insieme alla giovane per poche ore, ma evidentemente sufficienti per fargli dichiarare che Eluana Englaro è morta 17 anni fa, nella notte del terribile incidente stradale che le procurò gravi lesioni cerebrali.
In un colloquio difficile e commovente, la direttrice della struttura lecchese rompe a fatica e per l’ultima volta la consegna del silenzio in un pomeriggio piovoso e triste. Lo fa per amore della donna in stato vegetativo che è stata curata con amore dalle suore Misericordine per 15 anni. Lo fa per raccontare la sofferenza e il dolore che stanno provando in queste ore tutti i collaboratori della struttura, dai medici al personale infermieristico. Lo fa per ribadire che Eluana è viva. Al secondo piano della clinica, nella stanza dove la donna è stata ricoverata nell’aprile 1994, Suor Rosangela, che l’ha assistita quotidianamente, sta riordinando gli ultimi effetti di Eluana. Le foto non ci sono più. Non vuole parlare con noi, non l’ha mai fatto.
La direttrice resta in piedi sulla soglia della camera e negli occhi di suor Albina si leggono tutti i ricordi, le sofferenze come i momenti belli. Passano medici e infermieri del reparto. Sono tutti rigorosamente schivi, ma con gli occhi umidi. È ancora vivo il ricordo felice della giornata di Natale, quando Suor Rosangela ha accompagnato Eluana nella cappella, giù nel giardino. È stata l’ultima volta che sono potute uscire insieme. Suor Albina confessa di non aver più avuto la forza di salire al secondo piano da quando l’ambulanza ha portato via la degente all’una e mezza di martedì mattina. Per lei, per loro Eluana è diventata una figlia ed è stata trattata, sottolineano, come una paziente normale e con la tenerezza e che si riserva a una bambina appena nata, a una persona di famiglia.


Suor Albina, cosa ricorda di quei drammatici 30 minuti in cui Eluana è stata prelevata?
Ci siamo sentite addolorate e impotenti. L’abbiamo vista partire per andare verso il patibolo, come abbiamo detto a luglio. Ma anche se eravamo preparate al peggio, non ci aspettavamo che avvenisse così all’improvviso, pensavamo che il momento fosse più in là, più lontano nel tempo. Beppino Englaro è arrivato senza preavviso in una notte tetra di pioggia con l’ambulanza. Questo ha reso il distacco ancora più brutto e triste. Sono rimasta giù a lungo davanti all’uscita a fissare il vuoto quando è partita.


Avete parlato per l’ultima volta con il padre in quelle ore convulse?
No, è stato tutto freddo. Ci ha consegnato il decreto per far dimettere Eluana. A questo punto era inutile aggiungere altro. Ripeto, non lo giudichiamo. Con lui il rapporto in questi anni è stato corretto, anche se le nostre opinioni sono opposte alle sue.


Cosa avete detto ad Eluana?
Il suo medico curante l’ha accarezzata e le ha detto di non avere paura, che l’avrebbero portata in una stanza più grande, in un posto più bello. Penso che abbia capito.


E lei, come l’ha congedata?
L’ho salutata nel modo più naturale, con un bacio. Non ho potuto dirle altro, era troppo forte il mio dolore. Le parole che non le ho detto quella notte voglio esprimerle ora e spero gliele riferiscano: "Eluana, non avere paura di quello che ti succederà. Noi ti siamo vicini e soprattutto ti è vicino un Padre che ti accoglierà nelle sue braccia e un giorno ci ritroveremo a condividere la grande gioia di stare insieme".


Vuol dire qualcosa al personale sanitario che la sta assistendo in Friuli in attesa del distacco del sondino per l’alimentazione?
Vogliamo inviare un appello ai nuovi operatori: accarezzate Eluana, osservate il suo respiro e ascoltate il battito del suo cuore. Sono i tre elementi che vi porteranno ad amarla, perché lei non è un caso, ma una persona viva.


E a Beppino Englaro?
Ripeto ancora una volta che, qualora cambiasse idea, nella nostra clinica c’è sempre posto per sua figlia. Lasci vivere Eluana e la lasci a noi. Non è ancora troppo tardi.


Cosa farete ora?
È l’ultima volta che parliamo di questa vicenda. Accogliamo l’appello al silenzio e alla preghiera del Cardinale Tettamanzi. Ma non smetteremo di pregare perché le menti si illuminino ed Eluana possa vivere.

giovedì 5 febbraio 2009

Tre voci per dire che ELUANA VIVE !

Inserisco tre interviste molto diverse, ma anche molto interessanti. Personalmente ho trovato molto buon senso in tutti e tre, ma soprattutto tutti e tre testimoniano che ELUANA E' VIVA e non è un vegetale come alcuni vorrebbero farci credere. Buona lettura.

Parla la vedova Coletta: vi racconto Beppino ed Eluana

Pino Ciociola da Avvenire.it (4 febbraio)

Ha chiamato ancora papà Beppino ieri mattina poco prima delle nove: «Ma nemmeno l’hai accompagnata E­luana?», gli ha detto subito. Mar­gherita Coletta è la vedova di Giu­seppe, carabiniere assassinato a Nasiriyah il 12 novembre 2003, nel­l’attentato che spazzò la base ita­liana "Maestrale", carabiniere che non aveva mai ucciso e che sce­glieva le missioni all’estero per aiu­tare i bimbi più indifesi, quelli col­piti dalla guerra. Lo faceva per ri­trovare il sorriso di suo figlio Pao­lo, morto a sei anni stroncato dal­la leucemia: «Quando capimmo che era finita e i medici ce lo spie­garono chiaramente – racconta lei – facemmo interrompere la che­mioterapia». Margherita in questi mesi è volata dalla Sicilia a Lecco per andare a trovare Eluana, accompagnata da Beppino.
Spesso e a lungo l’ha ac­carezzata, l’ha baciata, le ha parla­to. E spesso ha parlato col papà, scontrandosi anche duramente, ma senza che mai lui le negasse il dialogo: in qualche modo for­se sono diventati amici. Ecco perché ancora ieri mattina lei gli ha telefonato dicen­dogli: «Speravo che coi gior­ni fossi rinsavito».


Cos’ha provato, Margherita, entrando nella stanza di E­luana?
La prima volta mi sono fermata sulla soglia della sua porta. Pen­savo di essere più forte. Ho re­spirato a fondo, poi sono entra­ta. Quando l’ho vista, abituata com’ero alle foto di lei ragazza, mi ha scosso, oggi è una don­na. Ma poco dopo è diventa­to tutto così normale, come fossi a trovare una persona in ospedale. Anzi, ho senti­to tanta dolcezza e nessun ribrezzo o pena. Né ho visto alcun 'sacco di patate', co­me qualcuno descrisse E­luana, ma una persona che è tutt’altro. Una persona.


La sensazione più bella?
Quando l’ho accarezzata. Con la sensazione netta, net­tissima, che lei avvertisse le carezze. Certo è che pensavo d’andare a dare io a lei, inve­ce ho ricevuto assai più di quanto le abbia dato.

Cosa?

La maggiore certezza nelle cose in cui credo. La con­sapevolezza che non si può ridurre una persona alla sua forma fisica.


Papà Beppino la accom­pagnava in quella stan­za?
Sì. La prima volta che l’ho incontrato mi ave­va fatto molta tenerez­za: pensavo a mio ma­rito Giuseppe, a quan­do è morto nostro fi­glio. E poi mi sem­brava quasi di parla­re con mio padre: mi diceva «sei una bir­ba».


Adesso è cambiato qualcosa?
Rispetto comun­que Beppino e provo sempre grande affetto per lui. Ma non è giusto quello che sta facendo. I figli non sono di nostra proprietà: ci sono soltanto affida­ti. Ci prendiamo cura di loro, li aiu­tiamo, li assistiamo e semmai li ac­compagniamo alla morte, prepa­randoli se deve accadere, anche da piccoli. Ma lui non si rende conto di tutto questo, si sente incapace di tornare indietro: credo sia so­prattutto lui in uno stato simile a quello vegetativo. Quando si risveglierà da questo torpore si renderà conto e starà male, tanto.


Lei che rapporto ha, Margherita, col papà di Eluana?
Ci siamo confrontati tante volte, ma è sempre stato cortese con me. È convinto di quanto fa, for­se perché non vede più Eluana come lui la vorrebbe. Ma a me pa­re evidente che in qualche modo sia stato plagiato da tanta gente alla quale non interessa nulla di Eluana. E lui ora è strumentaliz­zato, è finito in un vortice: ha an­che momenti nei quali io credo vorrebbe tornare indietro, perché non pare convinto fino in fondo di quanto sta facendo, ma non ne ha la forza.


Com’era trattata Eluana nella ca­sa di cura lecchese?
Come una regina. Le suore che le stanno accanto ogni giorno la cu­rano, la lavano, la profumano, la portano a spasso sulla carrozzella. Addirittura la depilano, perché E­luana come ogni ragazza non sop­portava d’avere peli sulle gambe.


E come sta?
Lei è una donna. Una donna di trentotto anni: ha la mia stessa età. Ha il ciclo mestruale come ogni donna. Apre gli occhi di giorno e li chiude la notte. Respira benissimo e da sola, serenamente. Il suo cuo­re batte da solo, tenace e forte. Ci sono momenti nei quali forse sor­ride e altri nei quali forse socchiu­de gli occhi. Ma quanti sanno dav­vero che Eluana non è attaccata a nessuna macchina? Quanti sanno che nella sua stanza non c’è un macchinario, ma due orsacchiotti di peluche sul suo letto? Che non ha una piaga da decubito? Che in di­ciassette anni non ha preso un an­tibiotico?


La notte scorsa hanno portato E­luana a morire: lei, Margherita, co­sa sta provando?
Ho un pugnale dentro. Prego, spe­ro fino all’ultimo che lui si renda conto di quel che sta facendo. Quanto sia sbagliato. Quanto non sia paterno. Quanto non sia uma­no. Io so che lui soffre dentro di sé, e tanto.


Ci ha parlato appena ieri mattina: secondo lei cosa prova Beppino?
Non so come possa vivere con un peso addosso come questo: Elua­na da diciassette anni è in quelle condizioni, ma lui fino a ieri mat­tina non si era mai svegliato sa­pendo che sua figlia sta per mori­re.


Come mai, Margherita, lei e suo marito Giuseppe decideste d’in­terrompere la chemioterapia a vo­stro figlio?
Paolo ne aveva fatti quattro cicli, ne mancavano due, ma ormai il male a­veva invaso tutto il suo corpo e i medi­ci ci spiegarono be­ne la situazione. I dolori e il vomito e tutte le devastazio­ni provocate dalla chemio a quel pun­to sì che sarebbero stati accanimento terapeutico: così ci fermammo, affi­dandoci e affidando Paoletto a Dio.


Perché invece con Eluana non ci sarebbe accanimento terapeutico?
Ma Eluana non ha una malattia, non è terminale, non ha un dolo­re, non ha un macchinario nella stanza, non c’è nulla che possa far pensare ad un accanimento per te­nerla in vita! È accudita, curata, a­mata. La si deve solamente aiuta­re a mangiare! Beppino però sostiene che la mor­te di Eluana servirà a liberarla... Liberarla da cosa? Come fa lui a sa­pere che lei è in catene? Una per­sona che soffre lo si vede. Non lo capisco proprio cosa voglia dire Beppino, cerco di sforzarmi, ma non ci arrivo.


Quella giovane donna da ieri è ri­coverata nella sezione maschile del "Reparto Alhzeimer" della cli­nica udinese "La Quiete"...
Ma si rende conto?! È lì, da sola, con nessuno che la conosce, che l’ha curata, che la ama, perché le suo­re di Lecco la amano: se sapesse ie­ri sera ( lunedì, ndr) quando ho chiamato suor Rosangela come piangeva. Anzi, mi permetta di rin­graziare proprio le suore della ca­sa di cura "Beato Talamone" e tut­te le persone che per quindici an­ni hanno avuto quella tale cura per Eluana.


Margherita, ma perché lei decise d’andare a trovarla?
Non lo so. Una sera ero a casa, ho visto la notizia al telegiornale e ne ho avuto il desiderio. So di non valere nulla, ma ho cercato il nu­mero di Beppino, perché volevo fargli sentire la mia vicinanza. L’ho chiamato, gli ho spiegato chi ero e che sarei stata felice se avessi potuto incontrare Eluana. Lui fu molto gentile, mi disse: «Signora, davanti al suo dolore m’inchino e mi fa piacere se viene». Appena poi arrivai a Lecco, mi chiese su­bito: «Margherita, tu da che par­te stai?».


Lei cosa gli rispose?
«Beppino, io non sto dalla parte di nessuno: sono venuta a trovare E­luana come se tu fossi venuto a tro­vare un mio parente caro»: andai da lei non per far cambiare idea a Beppino né per altro, solo perché mi era sembrato giusto farlo.


Come mai lei ha accetta­to di raccontare tutto que­sto solamente adesso?
Beppino sa che io non a­vrei mai detto nulla e l’ha visto finora. Però è giunto il momento di dare voce a Eluana.


Un’ultima domanda, Margherita: ha speran­ze per Eluana?
La prima volta andai a trovarla nel novem­bre scorso: le promisi che sarei tornata per Natale e Beppino, certo e tranquillo, mi disse: «A Natale non ci sarà più». Io le sussurrai nell’orec­chio sotto voce «non ti preoccupare, ci rivedia­mo» e così poi è stato.

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Non si può uccidere un angelo

Eluana dà segni di miglioramento

di Antonio Gaspari da Zenit.org (21 gennaio)

“Non si può uccidere un angelo. Nessuno ha diritto di togliere la vita ad una persona”. Così Antonella Vian, medico di Seregno (Monza), una delle poche persone che hanno avuto la possibilità di incontrare Eluana, ha spiegato a ZENIT che la Englaro, nonostante i 17 anni di grave disabilità, è viva e sta dando evidenti segni relazionali.

La dottoressa ha raccontato di essere rimasta colpita dalla reattività di Eluana.

La Vian ha spiegato che, molti che non l’hanno mai vista, la descrivono come una ragazza che vive da 17 anni attac­cata senza speranza ad una spi­na e in stato continuo di soffe­renza fisica, invece “non è attaccata ad un re­spiratore e respira autonomamente, a­pre e chiude gli oc­chi se sente parlare o se vede la luce, presenta un norma­le ritmo sonno-ve­glia”.

Inoltre “è in grado di variare il ritmo del suo respiro, a se­conda degli argo­menti di cui si parla intorno a lei. Le ho sentito, per esem­pio, un respiro mol­to affannoso quan­do si parlava della sua morte e si tran­quillizzava se le si parlava con dolcez­za e affetto”.

La dottoressa ha precisato che “Eluana non si trova in una sala di rianima­zione. Lei vive in una normale stanza, presso la Casa di cura Beato Lui­gi Talamoni di Lecco, accudita da suor Rosangela. Ha solo un son­dino naso-gastrico che l’alimen­ta”.

“Eluana – ha sottolineato la Vian – non sta soffrendo, anzi dà segnali di ripresa, vedi le me­struazioni che da qualche tempo le sono tornate e poi si è guarita da so­la da una grave emorragia avuta in ottobre, senza alcun interven­to medico”.

“Purtroppo – ha aggiunto – non ha contatti con persone, perché così sono gli or­dini e non lo trovo per niente po­sitivo per lei. C’è uno stato di rassegnazione, intorno a lei, per i tanti anni pas­sati in questo letto e per la sentenza che il 9 luglio del 2008 ha autorizzato la sospensio­ne dell’alimentazione e dell’i­dratazione, mediante sondino naso- gastrico”.

La Vian che è pure intervenuta nella manifestazione svoltasi a Lecco, sabato 17 gennaio, è convinta che “la scienza, non si è fermata: ciò che allora sembrava impossibile, oggi non lo è più”.

Ed in ogni caso “che diritto ha l’uomo di uccidere un angelo che non ha alcuna possi­bilità di difendersi?” .

“Aiutiamola facendo intervenire il progresso scientifico che se non oggi o un prossimo domani potrà darle e­videnti segnali di miglioramen­to – ha incoraggiato –. Lei la sua parte la sta già fa­cendo. Adesso tocca a noi!”.

In conclusione Antonella Vian ha voluto esprimere il suo personale e sentito ringraziamento al Ministro del Welfare Maurizio Sacconi, che con il decreto di urgenza ha impedito la morte di Eluana nella clinica di Udine.

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Intervista a Luciano Gattinoni, Primario di Anestesia a Milano

di Rita Balestriero da il Giornale (4 febbraio)

In questi giorni ha ripensato spesso ai versi di Dante il professor Luciano Gattinoni, primario di anestesia al Policlinico di Milano. Guardava le foto di Eluana, così bella e sorridente, ripercorreva le tappe di «questa brutta storia» e la mente ritornava ai banchi di scuola, «a quei versi, così dolci ma insieme strazianti, al XXXIII canto dell’Inferno, quando Dante descrive la morte dei figli del conte Ugolino».

Ce lo ricordi dottore, come morirono quei bambini?
«Proprio come morirà Eluana, di fame e di sete».

Una morte dolorosa?
«Tra le più atroci. Non si fa morire così neanche un cane. Le sfido queste persone, a provare a non bere niente per due giorni interi: la lingua inizia a gonfiarsi e piano piano la mancanza di idratazione provoca dolori atroci».

Dicono che la ragazza però non soffrirà, che non sentirà né dolore, né fame, né sete perché è in stato vegetativo, il suo cervello è troppo danneggiato...
«Chiunque dice queste cose mente».

Quindi lei è certo: Eluana sta andando incontro ad atroci sofferenze.
«La risposta sensata è una sola».

Quale?
«Nessuno lo sa davvero. Per certo sappiamo che Eluana non ha una percezione del dolore come la nostra, ma da qui a dire che morirà senza provare alcuna sensazione ne corre di strada».

Quindi lei è d’accordo con l’utilizzo di antidolorifici?
«Sì. Precauzionalmente o intenzionalmente poco importa, in questo caso l’uso di ipnotici e antidolorifici è obbligatorio. Non farlo sarebbe crudele, anche per chi crede che Eluana non soffrirà, perché nessuno può avere certezze a riguardo».

Proviamo a immaginare di entrare in quella stanza del primo piano, prima la terapia verrà ridotta del 50 cento, poi sempre di più, fino al quarto giorno, quando l'alimentazione e l'idratazione saranno sospese completamente e il medicinale somministrato attraverso il sondino sarà sostituito con un altro per via muscolare, insieme ai sedativi. Ma a tutto questo, come reagirà il corpo di Eluana?
«Guardi, è molto semplice: il corpo umano riesce a resistere circa due mesi senza mangiare, non più di otto giorni senza bere, quindi quella povera ragazza vivrà ancora per circa dodici giorni, perché saranno comunque costretti a sciogliere i farmaci in acqua».

Pare che le verranno somministrati anche prodotti come saliva artificiale, spray di soluzione fisiologica e gel. Dicono che serviranno per evitare eventuali disagi.
«Ma cosa vuol dire? Queste pratiche mi sembrano solo un modo per mettersi al sicuro esteticamente, un palliativo per l’opinione pubblica e per i medici che entreranno in quella stanza».

Per lei allora, quale sarebbe stato l’epilogo migliore?
«Continuare a garantirle idratazione e alimentazione, proprio come è stato fatto finora».

E poi?
«Aspettare che la natura facesse il suo corso, semplicemente. Senza intervenire di fronte ad ulteriori complicazioni. E invece...».

Continui.
«E invece così l’umanità ne esce sconfitta».

In che senso?
«Guardi ce l’ha insegnato più volte la storia: quando si ingaggiano guerre di religione si finisce sempre male».

Però un vincitore c’è: il signor Englaro è riuscito a ottenere quello che voleva da anni.
«Certo, ha vinto la sua battaglia ideologica, ma è proprio sicura che si possa definire un vincitore?».

Me lo dica lei.
«No. E le spiego il motivo: Eluana ha smesso di essere una persona da molto tempo».

Mi scusi, ma se non è una persona allora cos’è?
«Una bandiera. Purtroppo ormai è diventata solo un vessillo che le persone fanno a gara per poter sventolare».

Dopo la morte è già stato stabilito che Eluana sarà sottoposta anche ad autopsia. Dicono che servirà per studiare il cervello delle persone in stato vegetativo come lei.
«Vuole che le dica davvero quello che penso?».

Certo.
«Mi pare solo un ulteriore oltraggio. Cosa dobbiamo ancora imparare da questa brutta storia?».

mercoledì 4 febbraio 2009

Giovedì 5. Veglia per Eluana a Prato

Giovedì 5 Febbraio in collaborazione con la Parrocchia di Gesù Divin Lavoratore di Prato, in via Donizzetti alle ore 21,30, il Movimento per la Vita di Prato promuove una Veglia di Preghiera per Eluana.
Come segno di speranza, siamo tutti invitati a partecipare!!

martedì 3 febbraio 2009

18 giorni di Carnevale

Mario Riccio, il beneamato anestesista che fece fuori Piergiorgio Welby, un' auctoritas in materia, ha detto che ci vorranno 15 giorni; a questi ne aggiungiamo altri 3 perché la clinica di Udine deve valutare le condizioni di Eluana. Fanno 18 giorni.

Proviamo ad immaginare cosa succederà. Penso innanzitutto alla clinica friulana, che si farà una certa pubblicità con questa storia: facendo un paio di conti, starà circa un mese sulla prima pagina di tutti i giornali italiani. Chissà se a questo direttori e medici dell'istituto ci avevano pensato? Credo proprio di si.

A parte questo, la sentenza sembra già scritta. 18 giorni in cui giornali, tg, anse, santori e vespe aspetteranno appollaiati fuori dalla clinica qualcuno che venga a dire: alla fine è morta, ce l'ha fatta poverina. Una morte degna davvero: 18 giorni di fame e sete, di gente che aspetta l'ultimo sforzo che una volta per tutte ti spedisca all'altro mondo. Fa davvero ribrezzo questa pietas. Fa davvero ribrezzo questa fine. Fa davvero ribrezzo il baraccone che hanno messo su per ammazzare una persona di fame e di sete.

Non ci sono troppe parole da spendere, parleranno questi 18 giorni a chiedersi quando morirà, a sentirsi dire che è fatta giustizia, a vedersi imporre silenzio da chi ha scientificamente voluto tutta questa gazzarra. Ma questi 18 giorni parleranno alle coscienze di tutti e rimarrà la scarna e triste verità: una donna muore nel modo peggiore, di fame e di sete, mentre una folla intorno sta a guardare sperando che non senta nulla.

Ma cos'è il Carnevale? E' il mondo alla rovescia. Chi salva la vita oggi la toglie, chi amministra il diritto oggi lo calpesta, chi si ammanta di pietas oggi plaude ad una morte per inedia, chi chiede la verità oggi è sfinito di menzogne, chi invoca il silenzio oggi soffia sul fuoco della polemica. E poi c'è il povero Re del Carnevale, che in mezzo a tutto il baccano finisce per andare all'altro mondo.

Speriamo che finisca presto questo macabro Carnevale.

Andrea

lunedì 2 febbraio 2009

Giovedì 12 febbraio. Cena per la Vita a Prato

Cari amici,

quest'anno il Movimento di Prato organizza per GIOVEDI' 12 FEBBRAIO una "Cena di solidarietà" che si terrà al Ristorante "Il Club dello stinco" (Via Traversa per Mazzone, 151/e, Zona Prato Ovest - clicca qui per la mappa). Il contributo per la cena è di 20 € (prezzo speciale per bambini) e verrà devoluto al Movimento di Prato in occasione della Giornata per la Vita 2009, servirà infatti per finanziare materiale informativo, progetti educativi, Sos Vita e attività di sostegno e solidarietà.

Nel contesto della serata verrà presentata la prossima iniziativa del Movimento di Prato: lo spettacolo di Cinzia e Antimo "In Scena la Vita" che si terrà a Prato (Teatro Magnolfi, venerdì 6 marzo).

Siamo tutti invitati a partecipare!

Prenotazione obbligatoria: Marco Caponi - marco.mpvpo@libero.it