sabato 29 dicembre 2007

«Io, oncologa con il cancro, dico no all’eutanasia»

Il caso di Sylvie Menard
"Quando ho scoperto la malattia è cambiato il mio sguardo sull’esistenza"

Marina Corradi, da Avvenire, 28 novembre 2007

Era un giorno di aprile del 2005. La dottoressa Sylvie Menard, 57 anni, direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto dei Tu­mori di Milano, era alla mensa. D’improvviso un capogiro, uno svenimento. Nulla di grave, forse il bicchiere d’acqua troppo fredda che aveva appena bevuto. Co­munque, i colleghi le impongono di fare un esame del sangue. Lei è tranquilla. La sua salute è ottima. Ma i risultati della elettroforesi ri­velano un picco altissimo di im­munoglobuline. Un esito che si spiega solo in un modo, e quel mo­do, un’oncologa come la Menard lo conosce benissimo. «Era il 26 a­prile. Quel giorno, la donna che e­ro stata fino ad allora è morta. L’e­same segnalava un tumore del mi­dollo, un tumore non guaribile. A casa mi sono guardata allo spec­chio: impossibile, mi dicevo, io sto benissimo. Sono riuscita a addormentarmi solo quando mi sono convinta che, certamente, si trat­tava di un errore». Sylvie Menard oggi ha 60 anni. Il viso abbronzato sopra il camice bianco, è al suo posto, all’Istituto dei tumori. Sembra stare benissi­mo, ma è costantemente in tera­pia. Quell’esame, non era un er­rore. Il cancro c’era, e di quelli per cui non c’è ancora una cura riso­lutiva. Sono stati tre anni di una battaglia, che continua. Sylvie Me­nard lavora, e fa una vita norma­le. Ciò che è cambiato, dice, è il suo sguardo sulla vita. Parigina, cresciuta nella Sorbona del 1968, arrivò in Italia con il matrimonio. Dal ’69 in via Venezian, allieva di Umberto Veronesi, è, dice, laica e non credente. Del suo maestro ha condiviso l’impostazione filosofi­ca. E sulll’eutanasia, è sempre sta­ta d’accordo con lui. Fino a quan­do non si è trovata dall’altra parte della barricata. Malata, e di quale malattia. Allora verità e valori so­no stati rivoluzionati. Tutto è cam­biato: «Io, sono nata di nuovo». La scossa è stata terribile, un ter­remoto. Un oncologo non può il­ludersi, sa. E davanti a quella prognosi, il medico che per tutta la vi­ta ha parlato di cancro si trova sba­lordito e spiazzato: il nemico, ora, è addosso. «Ho conosciuto la im­possibilità, d’un tratto, di fare qualsiasi progetto. Come avere davanti un muro. Il futuro, sem­plicemente non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le ve­drò crescere». Scopre cos’è l’attesa di una dia­gnosi, quando il paziente sei tu. «Il terribile tempo dell’attesa», lo chiama. Quando aspetti l’esito di una biopsia, e non pensi più a nient’altro: «Fissi il telefono, a­spetti, prigioniero di una osses­sione ». Capisce cos’è, essere co­me bloccati in un limbo, quando sai che il male cammina, ma an­cora non ti puoi curare. A casa, l’angoscia dei familiari. Al lavoro, i colleghi. Quelli che vengono a dirti semplicemente : conta su di me. Ma anche quelli che se ti in­travvedono in fondo al corridoio svoltano l’angolo. «Ho scoperto che esiste ancora una parola tabù. È la parola cancro. C’è chi ha pau­ra di te, come se fossi contagioso». E quando dopo venti lunghissimi giorni la terapia può partire, co­me con una improvvisa ribellione dice di no. Che non vuole curarsi. «Era maggio, i primi caldi. Avevo voglia di vivere quell’estate. Per­chè curarmi, se tanto non posso guarire? Avevo voglia di restare ancora fra i sani'. E’ un’altra not­te difficile. («Quando hai un can­cro – dice – quello che conta sono le notti»). Ma il giorno dopo sce­glie: farà la terapia. «Qualcosa in me ha reagito. Anche senza guari­re, prolungare la vita di qualche anno, improvvisamente mi è di­ventato fondamentale, volevo vi­vere fino in fondo». Una metamorfosi attraversa la dottoressa. 'E’ cambiata la consa­pevolezza della vita stessa. Quan­do sei sano, pensi di essere im­mortale. Quando invece la tua fi­ne non è più virtuale, la prospet­tiva si capovolge. Io, il testamento biologico, da sana, lo avrei sotto­scritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un’altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero. Ciò che da sani non si capi­sce, è che i pazienti sono una po­polazione diversa. Anche io, pri­ma, parlavo di «dignità della vita», una dignità che mi sembrava in­taccata in certe condizioni di ma­lattia. Da sani si pensa che dove­re essere lavati e imboccati sia in­tollerabile, 'indegno'. Quando ci si ammala, si accetta anche di vi­vere in un polmone di acciaio. Ciò che si vuole, è vivere. Non c’è nul­la di indegno in una vita total­mente dipendente dagli altri. E’ indegno piuttosto chi non riesce a vederne la dignità». Nel tunnel della chemioterapia la Menard vede tutte le certezze del­la sua vita smentite dalla forza del­la concreta realtà. Guarda con al­tri occhi al dibattito sull’eutana­sia. Pensa a Eluana, la ragazza da molti anni in stato vegetativo che il padre vorrebbe lasciare morire. «Ma lo sappiamo, che quella ra­gazza non ha nessuna spina da staccare? Che l’ipotesi è quella di lasciarla morire di fame e di disi­dratazione? Sappiamo che ’stato vegetativo permanente’ non vuo­le dire che non c’è nessuna atti­vità cerebrale? In un lavoro scien­tifico recente è stato dimostrato che se si mette davanti agli occhi di uno di questi malati una foto­grafia di persone care, e si fa una risonanza magnetica, si vede l’ac­censione di una attività cerebrale. Come si può decidere di sospen­dere l’alimentazione»? Nelle parole della Menard ritrovi quella strana discrasia che noti sempre fra la realtà delle corsie e il dibattito pubblico sulla eutana­sia. Dove la «morte dignitosa» è un «diritto». Nella realtà dolente dei reparti terminali, i malati invece vogliono vivere. Sylvie Menard: «Il favore di tanti all’eutanasia si spie­ga con una sorta di inconscio e­sorcismo, un volere allontanare da sè la possibilità della malattia e del dolore. È una mancanza di imme­desimazione nel malato. Perchè, quando poi ti ci trovi, cambi idea» Ciò che domandano davvero i ma­­lati, dice la Menard, è di non sof­frire. «Deve essere fatto tutto il possibile, contro il dolore. E in questo in Italia siamo indietro. Bi­sogna insegnare ai medici a usare gli oppiacei, e a non lasciare un paziente nella sofferenza per la paura di usare questi farmaci. An­che questo fa parte di un decalo­go su cui lavora la Commissione per la umanizzazione della medi­cina, voluta da Livia Turco, di cui faccio parte». La vera battaglia, dice, è contro il dolore. Non per una morte che, nella esperienza amplissima del­­l’Istituto dei Tumori, i malati «ve­ri» non chiedono. Chiedono, in­vece di non essere abbandonati. 'Temo che l’eutanasia possa es­sere la logica avanzante, se di tan­ti malati, quando muoiono, si dice solo: finalmente, dice la Me­nard. «In Olanda – aggiunge – ci sono 10 mila malati all’anno che chiedono l'eutanasia. L’80 per cen­to sono malati di cancro, assistiti nel migliore dei modi dal punto di vista medico. E allora, mi do­mando, come mai tante richieste? Ho il dubbio che sia perchè è gen­te sola, che avverte attorno una tacita pressione a levare il distur­bo. Che avverte che, mentre vie­ne ottimamente curata, la sua presenza è ormai di troppo. Che, se muoiono, qualcuno dirà: FINALMENTE. E allora si adeguano, e ob­bediscono ». Ha ricominciato a curare le sue piante. I colleghi le hanno regala­to una giovanissima quercia. E’ lì nel vaso accanto alla scrivania. Ha, dice, «una nuova gerarchia di va­lori ». Vola a Parigi, per ogni festa di famiglia, non se ne perde più u­na. La domenica si siede a con­templare il suo giardino. Le pare bellissimo, e bellissima ogni mat­tina, qualunque numero ne resti. Ogni giorno da vivere, nessuno da sprecare. «Il testamento biologico, da sana, l’avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un tumore diventi un’altra persona e ciò che pensavi prima non è più vero». «Quello che chiedono i malati è di non soffrire. Si deve fare tutto il possibile contro il dolore» «All’improvviso ho conosciuto l’impossibilità di fare qualsiasi progetto. Il futuro non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le vedrò crescere» Ora ha ricominciato E ogni giorno le appare bellissimo, da vivere.




Le cure palliative: grandi dimenticate

Francesca Lozito

Non basta un farmaco per contra­stare il dolore. Le cure palliative moderne si propongono di avere un approccio globale ai bisogni del mala­to: dentro c’è tutto, l’assistenza medica, in­fermieristica psicologica, sociale, spiritua­le. «Ma il dolore bisogna curarlo e per far­lo occorre che i medici siano formati alla somministrazione degli oppioidi». Parola di Giovanni Zaninetta, presidente della So­cietà italiana di cure palliative, che punta tutto sulla preparazione appropriata della categoria «Fare delle adeguate politiche di formazione è fondamentale – dice. – Dei tentativi sono stati effettuati negli scorsi anni, ma non hanno avuto un grande seguito. So­prattutto perché è mancato il ricono­scimento. È neces­sario che questo ti­po di formazione alla somministra­zione della morfina riceva l’adeguata certificazione Ecm». E sembra quasi che la carenza di diffusione degli op­pioidi in Italia sia ferma a un crocevia tra «la carenza di informazione sul loro utiliz­zo – dice ancora il medico esperto in cure palliative – e un eccesso di informazione, che va soprattutto in una direzione nega­tiva ». Necessario è allora sfatare un altro mito strisciante e che ogni tanto riemerge nei dibattiti: «La morfina, se usata corret­tamente dal punto di vista terapeutico può portare grossi benefici». Per questo è importante che la prima co­noscenza l’abbiano appunto i medici, che sia prima di tutto in loro radicata l’impor­tanza del tipo di intervento che si va a fare con il fentanil piuttosto che ossicodone, per citare solo due degli oppiodi comune­mente usati: «La corretta prescrizione di questi – dice ancora Zaninetta – prevede un follow up molto controllato dal medi­co, soprattutto nei primi giorni». Nei giorni scorsi il dibattito ha registrato interventi a favore della diffusione del­l’utilizzo di questo tipo di farmaci anal­gesici per qualsiasi tipo di dolore, anche, banalmente, per una distorsione alla ca­viglia. Il dottor Zaninetta osserva che «al di là dell’iperbole, prima di tutto sia ne­cessario saper usare bene la morfina per curare un tipo di dolore severo. Bisogna prima di tutto usarla quando serve e avere chiaro come usarla». Il professor Zaninetta: per contrastare il dolore si deve mettere in campo un approccio globale ai bisogni del malato.



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1 commento:

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)