lunedì 19 marzo 2007

Intervista al ginecologo Giorgio Pardi

Pubblico un'intervista al ginecologo Giorgio Pardi comparsa il 20 aprile 2006 sull'inserto di Avvenire "E' Vita". Pardi non aderisce al Movimento per la Vita ed è stato anzi uno dei primi medici in Italia a praticare aborti dopo l'introduzione della legge 194, recentemente ha tuttavia favorito e sostenuto l'ingresso dei volontari e del personale dei CAV all'interno degli Ospedali. Pardi non è certo una voce di parte, ha semplicemente capito che la competenza e soprattutto l'umanità di queste persone può davvero aiutare tante donne in difficoltà a fare la scelta giusta, che, al di là delle convinzioni personali, è sempre la Vita.

Uno schiaffo a chi vorrebbe fare dei CAV una minaccia per le donne, un covo di fanatici pronti a combattere con tutte le armi.


Ma i consultori non erano stati istituiti allo scopo di sostenere le donne e rimuovere tutte le cause che le possano portare ad una decisione così dolorosa come l'aborto?


Convinciamo noi stessi e gli altri che l'opera dei CAV, non solo è sostenuta dalla legge 194, ma soprattutto deve essere considerata sacrosanta da tutti, anche da coloro che sostengono la legittimità dell'aborto.


Buona lettura.






«Non sono credente, ma amo ogni nuova vita»
di Andrea Galli (E' Vita, 20 aprile 2006)

Giorgio Pardi non è solo il direttore della più grande clinica ginecologica del nord Italia, la Mangiagalli di Milano: a ottobre è stato anche nominato membro onorario della Società americana di ginecologia e ostetricia. È la prima volta da un secolo a questa parte che l’associazione Usa conferisce questo riconoscimento a un italiano. Insomma, è uno a cui non mancano certo i titoli, dal punto di vista professionale, per occuparsi dei temi della vita nascente, della natalità, dell’aborto.



Professore, riprendiamo un tema che la campagna elettorale ha un po’ alterato. Secondo lei esiste un problema in Italia riguardo al supporto per le maternità "difficili", quelle cioè nelle quali la madre potrebbe decidere di abortire?


«Sì, esiste. E non è mai stato affrontato alla radice, per colpa delle ideologie e – me lo lasci dire – anche dei giornalisti che invece dell’informazione o della formazione del lettore inseguono banalmente lo scoop. Il problema si divide in due, secondo i due tipi di aborti: quelli entro 90 giorni, dove sostanzialmente è la donna che decide di abortire, e quelli dopo i 90 giorni dove in pratica è il medico che certifica il pericolo per la donna, soprattutto quando ci sono anomalie fetali. Sono due mondi completamente diversi. Non si può né descriverli né affrontarli con la stessa unità di misura».



Affrontiamo intanto il primo.


«Se dà un’occhiata alle statistiche della Lombardia vedrà che grosso modo il rapporto tra aborti entro i 90 giorni e quelli tardivi, cosiddetti terapeutici, è di 1 a 10 fino a 1 su 15. Per gli aborti entro i 90 giorni il problema è la non accettazione della gravidanza da parte della donna. A Milano, in Mangiagalli, ma anche in Lombardia e credo proprio in tutta Italia, il 40% delle donne che abortiscono sono extracomunitarie. Ergo, si deve affrontare il problema secondo la realtà in cui vive questo 40% di donne che ricorre all’aborto perché non ha soldi sufficienti, perché non vuole perdere il posto di lavoro, eccetera. Cioè, non è soltanto consigliando a queste donne di non abortire che si può riuscire a convincerle: bisogna intervenire in maniera sostanziale, attraverso un sostegno economico e sociale adeguato. Vede, io non sono credente ma amo la vita e per me un aborto – l’ho detto centomila volte – è un omicidio fatto per legittima difesa della donna. Per cui se riesco ad evitarne anche solo uno sono felicissimo. E per evitare soprattutto che abortisca questo 40% di donne extracomunitarie bisogna aiutarle dal punto di vista sociale e materiale. Fino a quando questo non viene visto come la lettera A dell’alfabeto, è difficile andare avanti senza riempirsi semplicemente la bocca di considerazioni avulse dalla realtà».



È questo l’atteggiamento ideologico di cui parlava prima?


«Sì, esattamente. Se vuole capire meglio a cosa mi riferisco, pensi alla recente manifestazione nazionale di Milano in difesa della 194. Che la legge 194 non vada ritoccata a priori – tenga presente che sta parlando con la prima persona a fare l’aborto in Italia con la 194, insieme al mio maestro, il professor Candiani – mi pare assurdo. Perché non si può ritoccare la legge? Ma chi l’ha detto? Perché la legge 194 deve essere diversa dalle altre? Si ritocca se deve essere ritoccata. Perché a priori dire no? Si spieghi perché no. Io rifiuto gli apriorismi».



E delle donne italiane cosa può dire?


«Per l’altro 60% di donne che abortiscono, che sono appunto milanesi, lombarde, comunque italiane, il problema più che economico è esistenziale. La cultura di oggi ha fatto sì che la donna quando si sente dire "tu sei fatta per procreare", che è la pura verità biologica, anziché esserne gratificata si sente quasi offesa. L’emancipazione femminile è arrivata all’adozione di un modello totalmente maschile. Il vero problema, quindi, è la cultura della donna per come si è configurata nei Paesi occidentali, in particolare in Italia».



Passiamo al secondo tipo di aborto, quello cosiddetto terapeutico.


«Anche qui non si può non far riferimento a un problema culturale e sociale. Abbiamo creato la cultura del feto perfetto: la donna vuole, esige un feto perfetto e rifiuta il benché minimo grado di imperfezione. Oggi può capitare che una donna che fa un’ecografia si senta presentare il referto di un bambino che ha sei dita in un piede, il che è ovviamente un’anomalia, ma un’anomalia assolutamente compatibile con una qualità di vita perfetta. Per colpa anche del medico, che spesso non sa comunicare adeguatamente la diagnosi, ne nasce un dramma. Non c’è più, insomma, l’accettazione del pur minimo grado di difficoltà. Contro questa cultura bisogna battersi: perché un certo livello di accoglienza dell’imperfezione deve esistere, la natura è imperfetta. Una cosa importante che la gente dimentica è che l’interruzione terapeutica della gravidanza non dipende direttamente dal grado di imperfezione del feto: se così fosse, saremmo veramente crudeli. A determinarla è il cosiddetto rischio per la salute fisica o psichica che questa imperfezione ha per la donna».



Tornando al sostegno alla maternità: cosa va fatto concretamente?


«Innanzitutto la donna deve poter ricevere un counseling, una comunicazione adeguata, soprattutto in considerazione della possibilità di proseguire la gravidanza. Al centro di questa comunicazione non dev’esserci quello che l’interlocutore pensa sia giusto fare, ma deve esserci la donna, con il suo dramma. Donna a cui, però, va offerta rispettosamente un’altra prospettiva, diversa da quella dell’aborto. A questo proposito devo dire che, per esempio, il Centro di aiuto alla vita (Cav) attivo qui alla Mangiagalli, con i pochi fondi e i pochi spazi che ha, ha fatto veramente miracoli. E con un atteggiamento coerente con quello che le ho appena detto: mettendo cioè al centro di tutto la persona. Io sono felicissimo che ci sia il Cav, vorrei che fosse potenziato».



Quindi un adeguato e articolato sostegno umano...


«Sì. In secondo luogo l’informazione deve essere spostata dall’aspetto puramente tecnico alla considerazione della ricaduta che può avere sulla donna. La donna fa sempre una domanda: se io non abortisco come sarà questo bambino a dieci anni? La capacità di rispondere a interrogativi come questo è un’operazione medica molto difficile, che deve essere fatta con grandissimo scrupolo ed enorme prudenza e responsabilità da parte del medico. È necessario, poi, che esistano istituzioni capaci di offrire alla donna la possibilità di accettare il bambino diverso rispetto alle attese. Intendo dire che occorrono associazioni – per fare un esempio – che a una donna con un bambino down dicano: sappi che se scegli di proseguire la gravidanza ti offriremo un aiuto per stare vicino al bambino, per crescerlo; sappi che non resterai sola, che la tua esperienza è condivisa da moltissime altre persone. L’aborto è un fatto di estrema drammaticità. È giustissimo fare scegliere la donna, ma ponendola nelle condizioni di capire che si tratta di una scelta dolorosa».

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