venerdì 21 settembre 2007

Storie di bastardi

Avrei dovuto e forse voluto scrivere ancora del Quarenghi, ma sfogliando il giornale ieri ho letto i nuovi sviluppi di una vicenda che già qualche mese fa mi aveva sconcertato. In questi mesi nei quali ci siamo concentrati quasi interamente sul nostro Seminario estivo ne sono successe diverse di storie interessanti; c'è stata la morte di Nuvoli, c'è stato il caso della soppressione della gemellina "sbagliata", ma questa è quella che meglio illustra cosa vogliono fare di noi, cosa si nasconde davvero dietro la loro malsana ideologia, tra falsa pietà e robotica autodeterminazione.

Io, tu, noi, loro, quasi tutti. Siamo tanti, per alcuni esageratamente troppi, piccoli numeri che tormentano le stanze del potere. Ci contano, contano quelli che producono, quelli che non producono, quelli che possiedono, quelli che non possiedono. Calcolo. Meticoloso e dissennato business. Antonio Trotta è un povero bastardo, figlio di un dio lontano; è stato sfortunato, ha sbattuto la testa, è in coma e succhia alla collettività qualche migliaio di euro all'anno. Il padre non ha santi in paradiso, non ha i soldi per comprarsi il benestare di un tutore pizzaiolo ed una moglie sempre stata ex, o la consulenza di qualche medico più mercenario di altri. Probabilmente non avrebbe nemmeno il denaro per comprare la salute del figlio, casomai un giorno qualche scienziato più pazzo di altri si inventasse l'eterna giovinezza, tra un ovulo di mucca chianina ed il nucleo di un fachiro persiano.

Fanno i calcoli, li fanno tornare, e poi parlano di pietà, ti costringono ad uccidere (talvolta ad abortire, adesso a staccare la spina) e la spacciano per libertà. Hai soldi o produci soldi? Bene, accomodati nel regno dei viventi. Sei un vegetale, un bastardo figlio di nessuno? Resta fuori, sei di troppo.

Buona lettura. Spero vi faccia un po' inca*****.


Questa è la verità.

Il diritto alla Vita
Il giovane, cittadino italiano, potrebbe essere riportato oltre confine, dove non verrebbe più curato. La vicenda di Antonio Trotta, in stato vegetativo da due anni, conteso tra Italia e Svizzera, tra genitori ed ex moglie. Il padre: «Pronto a tutto per salvarlo»

Lucia Bellaspiga, da Avvenire del 18 settembre 2007

Non è solo una minaccia. È un'intenzione: «Se porteranno via mio figlio dovranno trascinare anche me. Io mi incateno a lui, lo giuro, ci porteranno via insieme, dovranno fare un sequestro di persona». È fragile e ha i nervi spezzati, ormai, ma il vigore gli viene dalla disperazione.
Gerardo Trotta, 63 anni, è il padre di Antonio, 38, in coma vigile dall'estate del 2005, dal giorno in cui un camion lo investì in Svizzera, dove il giovane italiano aveva aperto un ristorante insieme ad Anna, la ex moglie bosniaca. È la stessa disperazione che gli aveva dato la forza, il 7 dicembre dell'anno scorso, di caricarselo su un'ambulanza e portalo via da Lugano, di nascosto, per ricoverarlo oltre il confine, a Brebbia (Varese), in una attrezzatissima struttura riabilitativa, la Fondazione Borghi. Un colpo di mano per la vita, senza il quale oggi di Antonio certo non parleremmo più: «Dopo le prime efficaci cure a Basilea, era stato dimenticato in un ospizio per anziani a Lugano - si torce le mani Gerardo -. Lì non veniva più curato, stava morendo».
In pochi mesi i passi avanti raggiunti a Basilea - dove era nutrito naturalmente e si alzava persino in piedi, retto dagli appositi sostegni - scomparvero e il ragazzo divenne una larva: muscoli atrofizzati, infezioni, febbre alta. «Soffocava nel suo catarro ma non gli facevano la tracheotomia - balbettano papà Gerardo e mamma Violanda, costretti a parole impronunciabili - i medici di Lugano ci spiegarono che una commissione aveva deciso che nostro figlio non valeva la pena curarlo, se gli veniva qualcosa bisognava lasciarlo morire, se no era accanimento...». Lo lasciavano soffocare come forma di rispetto.
Difficile credere che sia tutto vero, ma a parlare ci sono le carte, firmate dal primario dell'ospedale elvetico. La data è il 13 ottobre del 2006 (due mesi prima del "colpo di mano" dei genitori) e il linguaggio è sconvolgente nella sua inequivocabile chiarezza: si parla di "coma vigile dal maggio 2005", di grave infezione polmonare, "temperatura ascellare a 40,3°", "rantoli diffusi"... Poi si specifica che "nonostante il margine di miglioramento estremamente ridotto vi è una costante richiesta da parte dei familiari affinché, in caso di complicanze, si adoperino tutti i mezzi terapeutici possibili. Ma la Commissione di Etica clinica si è espressa contro trattamenti ritenuti futili di medicina intensiva visto che non c'è possibilità di guarigione o di una qualità di vita accettabile. Ci asteniamo pertanto da misure di rianimazione...". Nero su bianco.
"Rapito" dai genitori, Antonio in Italia ha ripreso la sua risalita dall'inferno della morte lenta e indignitosa cui era stato condannato. «Il suo tutore nominato in Svizzera, un certo Pino Chianese, si opponeva, ma gli abbiamo fatto credere che lo avremmo trattenuto a Brebbia solo per un breve ciclo di riabilitazione - racconta Gerardo -. A Gallarate gli hanno fatto la tracheotomia, così non ha più febbri e respira autonomamente. E poi lo guardi: vede che ci ascolta?». Non parla, Antonio, non può farlo, ma piange, muove le labbra, si agita, cerca di esprimere qualcosa, stringe nella sua la mano di chi gli parla nel tentativo estremo di mettere in comunicazione due mondi abissalmente distanti. Però c'è. Ed è vivo. «Come può questo signor Chianese decidere sulla vita di nostro figlio? Non chiediamo nulla, vogliamo solo portarcelo a casa e curarlo come stiamo facendo adesso, che da dieci mesi giorno e notte siamo con lui, gli parliamo, lo accarezziamo, gli facciamo sentire che non è mai solo». È risaputo, infatti, che solo questa è la terapia possibile nei casi di coma vigile. «Trasfusioni di amore», le chiamano gli esperti, le uniche che a volte portino al risveglio.
Parla e piange, questo padre consumato, mentre con mano incerta scrive a fatica due righe al suo arcivescovo, cardinale Tettamanzi: "Come suo diocesano le chiedo aiuto e conforto per mio figlio Antonio. Ho paura che lo portino in Svizzera a morire". Si aggrappa a tutto. Domani infatti scade il termine che la Procura della Repubblica di Varese ha fissato perché una speciale commissione di tre medici valuti il caso del giovane: a luglio lo hanno visitato a Brebbia, hanno studiato le cartelle cliniche, hanno anche fatto un sopralluogo in casa Trotta, ad Albizzate, nel frattempo allestita con un letto speciale e le macchine per l'alimentazione. La risposta sarà depositata domani, «ed è da domani, quando scade la "tutela" legata al lavoro dei tre periti, che in teoria quel Chianese potrebbe venire con un'ambulanza e portarlo in Svizzera», spiega Pierpaolo Cassarà, il legale dei genitori. «La parola finale spetta al Tribunale di Varese, ma guai se intanto ce lo lasciamo scappare...». «Vengano, dovranno trascinare anche me», piange il padre, la catena e il lucchetto pronti, nell'attesa del responso.
«Qualunque sia questo responso me lo riporto in Svizzera», giura intanto dai giornali elvetici la ex moglie, separata da un anno prima dell'incidente. «È stata lei a nominare tutore il suo amico Chianese - dice il legale -, l'unico che secondo le leggi svizzere ha potere di decidere le modalità di cura e persino di valutare se la casa dei Trotta ha la strumentazione adatta al caso clinico». Di mestiere fa il pizzaiolo.



E adesso leggiamo cosa ci raccontano i nostri fratelli svizzeri.
Imminenti schiarite sul destino di un paziente in coma

Françoise Gehring, da swissinfo.org (18 settembre 2007)

E' a un passo dalla soluzione la vertenza giuridica tra il Ticino e la vicina Penisola riguardo alle cure di un uomo di 39 anni in coma dal 2005 a causa di un incidente stradale.
I suoi genitori vogliono che rimanga in Italia dove è tuttora ricoverato, mentre la moglie lo vorrebbe accanto a sé, in Ticino. Sullo sfondo della vertenza spiccano anche elementi di natura etica.
Nei giorni scorsi la vicenda di Antonio Trotta - l'uomo di 39 anni in coma da due anni dopo essere stato travolto da un furgone in Ticino - ha tenuto banco su molti media, soprattutto italiani. In alcuni casi forzando, per la verità, anche i titoli, come: "La Svizzera vuole staccare la spina", oppure "Due nazioni contro".
Titoli fuorvianti, perché non si è mai trattato di negare le cure a nessuno. La storia, in cui le dimensioni etiche giocano un ruolo di primo piano, è in realtà molto più complessa e delicata, anche perché in mezzo alla vertenza giuridica, c'è il dolore di una famiglia che spera ardentemente di riavere il proprio figlio, in stato vegetativo da due anni.
Secondo i genitori di Trotta, in Italia il loro figlio beneficia di un'assistenza migliore e da quando è ricoverato nella clinica vicino a Varese, le cure starebbero facendo effetto e le sue condizioni di salute sarebbero migliorate. Dichiarazioni che, tra forzature e polemiche, hanno destato un vivo clamore.

Nelle mani della giustizia
Il tutore svizzero, nominato a suo tempo dalla moglie di Trotta (la coppia è separata, ma non legalmente) subito dopo l'incidente, vorrebbe però che Antonio tornasse in cura all'Ospedale Civico di Lugano, in quanto in Italia sarebbe sottoposto ad un accanimento terapeutico.
I genitori di Trotta, però, vogliono bloccare qualsiasi provvedimento in tal senso: non vogliono saperne del rientro in Svizzera e sono determinati a tenere il figlio nel Varesotto, nella speranza che, sia pur gradualmente, egli guarisca. La vertenza è così approdata al Tribunale di Varese.
Martedì il procuratore Maurizio Grigo ha dunque deciso di disporre d'ufficio una perizia medica urgente per valutare le effettive condizioni di Antonio Trotta. Il magistrato ha confermato alla stampa che in questo modo la Procura intende soprattutto capire se le cure cui è sottoposto in Italia "possano dare al paziente una aspettativa di vita e un esito migliore di quelle cui sarebbe sottoposto in Svizzera".
Solo dall'esito di questa perizia (affidata a un collegio di tre esperti) il procuratore italiano potrebbe decidere se adottare un provvedimento che trattenga in Italia il paziente, sottraendolo di fatto alla tutela cui ora è sottoposto in Svizzera.
La decisione ufficia­le è attesa a giorni, ma è lo stesso magistrato a far ca­pire che la ri­chiesta avanzata dai genitori e dalle sorelle di Antonio Trotta, attraverso il loro legale, sarà accolta. Del resto l'intera vicenda sta tornando in un quadro di confronto improntato al buon senso e neppure l'attuale tutore si oppone più alla permanenza di Trotta in Italia.

Aspetti etici e umani
Il dottor Roberto Malacrida, direttore del reparto di cure intense dell'Ospedale Civico di Lugano, professore di etica clinica all'università di Ginevra e segretario dell'organo di controllo etico cantonale, ha spiegato che nel mese di giugno del 2006 la Commissione etica dell'Ente ospedaliero cantonale ha suggerito di rinunciare al trattamento ad oltranza.
"Si trattava di evitare l'accanimento terapeutico – spiega il professore a swissinfo - nel caso in cui le condizioni di Antonio Trotta si fossero aggravate, visto che, sebbene un giorno ci potranno essere dei miglioramenti, il paziente non potrà più condurre una vita normale".
Malacrida ha inoltre precisato che la specialista consultata dai genitori di Antonio Trotta (una neurologa rinomata che lui conosce personalmente) ha in realtà consigliato loro di accogliere il figlio a casa, tra gli affetti dei propri cari, che nel frattempo hanno già predisposto un arredamento funzionale per poterlo accudire.
Quello espresso dalla commissione etica cantonale, ha nuovamente ribadito il medico ticinese a swissinfo, è un consiglio e non ha alcun valore coercitivo. Non ci sono pertanto visioni o intenti contrastanti: volontà di cura contro volontà di abbandono. Ma solo e unicamente delle indicazioni pratiche di fronte ad improvvise e molto prevedibili difficoltà.
"Abbiamo preso questa decisione - aggiunge Malacrida - non solo in base a considerazioni mediche, ma anche con un sincero sentimento di "pietas", teso a tutelare e a rispettare la dignità umana".

L'affetto dei cari e le cure mediche
A dimostrazione dell'impegno e della volontà di assicurare la migliore assistenza medica a Trotta, Roberto Malacrida ha ricordato che l'uomo è stato ricoverato per otto mesi a Basilea, in un centro di riabilitazione considerato tra i migliori al mondo per la dedizione, la qualità e la serietà delle cure.
"In questo centro - spiega il medico ticinese - si cura quasi fino all'infinito, si accudisce il malato in situazioni disperate nell'incondizionato segno della speranza". Quella speranza che è proprio l'ultima a morire. Ma dal nosocomio renano Antonio Trotta era tornato con miglioramenti davvero minimi.
"In questi casi – sottolinea il medico - la statistica dice che c'è una probabilità su mille di migliorare e di recuperare una vita accettabile. Abbiamo dunque deciso di prestargli le cure necessarie, che abbiamo peraltro sempre assicurato. Ma di non rianimarlo in caso di complicazioni, che è un'altra cosa".
La famiglia, come nel caso di Antonio Trotta, ha il diritto di decidere di prendersene cura, assicurando cure, amore ed affetto anche per 30 anni. "Ma un conto è essere madri e padri - conclude Malacrida - e un conto è essere terapeuti. A noi spettano decisioni diverse". Decisione diverse, è vero, ma non per questo prive di sensibilità, umanità e compassione per la sofferenza e il dolore.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Che significa: " la statistica dice che c'è una probabilità su mille di migliorare e di recuperare una vita accettabile"? Chi è che dice quale vita può essere idonea ad essere vissuta e quale no? Forse un dottore, che per autodifesa si crea uno schermo di cinismo per non cadere nella depressione dovuta alle migliaia di sciagure e malattie a cui si trova a contatto ogni giorno? Credo proprio di no e come lui nessun altro! Diamo alla vita il valore che le spetta, non minimizziamola alla sola "produzione"! Gemma

Anonimo ha detto...

purtroppo non mi ha fatto incaxxxxx come dici tu ma mi ha fatto piangere non so cosa è peggio...

MPV toscana giovani ha detto...

Forse la seconda. Non bisogna rassegnarsi. In questo caso non possiamo fare nulla, come in molti altri casi siamo impotenti, ma seminando in silenzio una culture diversa da quella di morte, forse qualcosa riusciremo a fare lo stesso.

Anonimo ha detto...

Piangere non � una cosa negativa. Vuol dire che c'� ancora qualcuno che ha dei sentimenti, degli ideali e che per questi si commuove. L'importante � che questo sia accompagnato da voglia di fare e che non sia solo fine a se stesso. Lucia

Anonimo ha detto...

E' sul signiicato di dignità che si gioca tutto. Se un uomo non vale per il suo "essere", ma solo per quanto riesca a produrre, per quanto riesca a fare, o per quanto riesca a "stare in piedi da solo", allora mi domando: Chi è degno di vivere?