sabato 7 febbraio 2009

Mi gira la testa

Stamattina apro internet e mi metto a fare il mio solito giro di siti: Repubblica, Giornale, Corriere, Avvenire, blog di amici, siti di Fiorentina, Facebook. A parte qualche sporadica riflessione sensata, da tutte le parti, anche sui siti di calcio, si è persa la misura delle cose. E la misura è una sola, da qualsiasi parte si voglia girare: ad una persona stanno togliendo pane e acqua e tra un paio di settimane morirà per questo. Basta.

Leggo i commenti della gente e sembra che il problema più grande sia l'ingerenza della Chiesa cattolica, che il paese sia irrimediabilmente spaccato a metà tra laici e cattolici, che Berlusconi si appresti a fare un golpe in grande stile ed amenità varie.

Invito tutti ad uscire dagli schieramenti di appartenenza, ammesso che ce ne siano e a vedere i dati di fatto, uno ad uno, analizzandoli razionalmente. L'ideologia, laicista o integralista, rossa o nera, terrorista o pacifista, finisce sempre per essere uguale a se stessa: lontana dall'umanità, lontana dal buon senso, lontana dalla logica.

Andiamo per punti.

1) Eluana si trova in stato vegetativo. La scienza non dà spiegazioni su ciò che un individuo può sentire, sulla sua percezione del mondo esterno, sui suoi sentimenti, le sue impressioni, le sue visioni. La scienza non dà risposte, ma esistono alcune persone che si sono risvegliate da questo stato dopo 2, 5, 10 anni e tutte raccontano che erano in grado di percepire il mondo esterno. Molti di loro ricordano le persone che le hanno visitate, addirittura ricordano alcuni discorsi, alcuni nomi pronunciati oppure fatti accaduti mentre erano in stato vegetativo. Perché non credere loro? Perché continuare a pensare che il battito delle ciglia è solo un riflesso meccanico e non un segnale volutamente inviato al mondo esterno, come nel caso di Salvatore Crisafulli.

2) Eluana aveva affermato in vita che in una situazione come la sua di adesso, avrebbe scelto di morire. Il padre ne è sicuro, ma non esiste nulla di certo. Ascolto a Matrix le parole della sua migliore amica e mi colpiscono due argomenti. Eluana era una piena di vita, sempre attiva, sempre in moto, per lei esisteva solo bianco o nero, e dunque non avrebbe mai accetato una vita non vissuta a pieno. Ma quante persone sono così, attivi solari gioiosi, spigolosi e irruenti, eppure sceglierebbero comunque di vivere; ed anzi, proprio un carattere così positivo potrebbe davvero aiutare a superare una condizione difficilissima come la sua. E poi, sempre l'amica riporta un'episodio a suo parere decisivo per stabilire definitivamente la volontà di Eluana: un giorno le raccontò di essere stata in chiesa e di aver pregato perchè un amico, in condizioni disperate dopo un incidente, morisse e finissero al più presto le sue sofferenze. Bene, lo confesso, anche a me è capitato di fare lo stesso, ma non per questo se fossi in stato vegetativo, chiederei di lasciarmi morire.

3) Eluana morirà di mancanza di cibo e di acqua. Morirà come Terry Schiavo, morirà in un modo in cui nessuno vorrebbe mai morire. Alcuni medici dicono che comunque è il modo migliore per morire, ma come possiamo assolutamente fidarci? Infatti, nonostante per loro sia questo un modo indolore di morire e nonostante ritengano che Eluana non senta nulla di nulla, intanto la riempiono lo stesso di sedativi. Perché? Forse perché non sono sicuri di tutto questo, e dall'altra parte della barricata altri medici dicono che sia un modo atroce di morire, perché probabilmente davvero soffrirà.

Non c'è nulla di certo in questo strana storia. Non siamo sicuri della volontà di Eluana, non siamo sicuri della totale incoscienza e insensibilità, non siamo sicuri se soffrirà o meno, senza pane nè acqua. Non si sa. Eppure si sceglie per la morte. E per la peggiore delle morti.

Questa è la realtà.

Ma tutti sembrano scordare tutto. Tornano le sarabande politiche, tornano le giaculatorie laiciste, torna Berlusconi e il suo codazzo ti antiberlusconiani che lo mettono alla berlina. Anche questa storia sembra affare di destra e di sinistra, di ateismi e clericalismi. Non è così, è solo il solito modo di mascherare le cose. Ma le cose non solo le si mascherano, le si rovesciano in un carnascialesco balletto di sentenze. Incuranti delle cose, incuranti della realtà, solo smodatamente vanitosi davanti allo specchio delle prorpie opinioni.

Mi riferisco alla Palombelli, alla nostra Carla Bruni vizza e intellettualprogressista, o se volete, alla nostra Colombina, la moglie sempre in scena di un marito sempre in disparte. Ieri sera ha detto di non capire tutto questo accanimento per la vita, questa paura della morte, questo voler rimanere attaccati a tutti i costi a qualcosa che dicono non ci sia più. A me questo modo manicheo di vederla mi spaventa: mezza vita, grazie meglio niente. O tutto o niente. E' facile per noi borghesi piccoli piccoli parlare: noi che alla fine della giornata abbiamo sempre la pancia piena, che risolviamo i problemi con il conto in banca, che la cosa peggiore che può capitarci è non uscire il sabato sera, avere il mal di testa il venerdì, perdere in casa con il Lecce o pagare una multa per 180 in autostrada. Io non parlo, perché forse appartengo a questa categoria. Ho anch'io la pancia piena, ma so che un giorno potrebbe essere vuoto. Ho la pancia piena ma mi sforzo di pensare ad una vita nella sofferenza, nella malattia, nel dolore: mi sforzo di pensarla vita umana, di un'umanità diversa, probabilmente superiore. Non disumana, come ha detto Beppino, la sofferenza, che ci piaccia o no, non è mai disumana, è parte integrante del nostro essere uomini. Mi sforzo di pensare che la sofferenza non si cancella con la morte, ma provando a curare le ferite, a trasforamarle in piccole e preziose gioie, molto più grandi dei piaceri delle nostre pance piene.

Io non rispondo a Colombina, non sono in grado. Lascio rispondere chi ne sa più di me, chi ha deciso di trasformare la sofferenza in gioia, la morte in vita, il male in bene. Lascio rispondere chi un giorno ha visto la sua pancia improvvisamente vuota e ha deciso di riempirla con qualcosa di meglio che le partite la domenica, i poker con gli amici, le gitarelle all'outlet e tutte quelle straordinarie cose a cui si dice non valga la pena di rinunciare mai.

Leggete questa storia e poi ditemi se è accanimento o amore.

Andrea

Gabriele, la vita più preziosa

da Speciale di Avvenire

«Incompatibile con l’esistenza», dissero i medici ai genitori quando nacque. E loro allargarono braccia e cuore: «È un figlio. E lo ameremo per sempre»

Le fotografie di Gabriele sono dappertutto. In cucina, nella camera dei fratelli, in soggiorno. Martina e Roberto lo fotograferebbero di continuo, il loro piccolo. Così come conservano con gelosia ogni oggetto che gli appartiene: il primo ciuccio, i calzini che ha usato nella culla termica, la tutina con la quale è stato battezzato, il berrettino che ha usato la scorsa estate in montagna. Ogni istante dell’esistenza di Gabriele è prezioso. Perché potrebbe essere l’ultimo. Ecco cos’è quel collezionismo dei genitori che in altre condizioni sarebbe quasi eccessivo: è il desiderio di rendere prezioso ogni istante, di tenere con sé più tracce possibili di lui, come a prepararsi una miniera di ricordi. I ricordi di tutta una vita concentrati in pochi mesi.
Gabriele è un bambino fragile. Attaccato alle macchine per respirare e per nutrirsi, vive nonostante tutto: nonostante la mamma avesse ricevuto pressioni per abortire. Nonostante le statistiche mediche dicano che con la Trisomia 18 la speranza di sopravvivere non vada oltre qualche mese. Nonostante un paio di crisi gravi durante le quali tutti si erano preparati al peggio. Gabriele, miracolo vivente dell’amore, oggi ha quasi un anno e mezzo e abita a Sandon di Fossò, un gruppo di case nell’intrico di stradine della piatta campagna tra Padova e Venezia. La sua culla è addossata a una parete nella camera dei genitori, il letto matrimoniale è insieme fasciatoio, palestrina per i giochi, luogo degli abbracci di mamma e papà e dei fratelli, Francesco e Chiara. Gabriele è più piccolo della sua età, la malattia, oltre agli organi interni, colpisce anche la crescita. A vederlo, è un bambino poco più che neonato: sorride, segue con lo sguardo i movimenti di chi lo va a trovare, agita le braccia. Il suo corpicino trae vita dalle macchine: il respiratore, collegato ai tubi della tracheotomia, e il sondino per l’alimentazione che entra direttamente nello stomaco. “I medici che vengono a visitarlo si stupiscono della sua vitalità: va contro ogni evidenza scientifica, ci dicono”, osserva la mamma, Martina. “Ma noi lo conosciamo, il segreto di Gabriele: è l’amore che riceve, un amore che contribuisce alla sua risposta positiva”.
Coraggiosi, i genitori, ma non eroi: “Occuparsi di Gabriele non è una passeggiata, non lo è mai stato fin da quando, in gravidanza, l’ecografia aveva evidenziato un problema al cuore”, ricorda Roberto Zanta, il giovane papà che fa l’operaio alla Mediagraf di Noventa Padovana e che alla sua azienda e ai suoi colleghi è riconoscente perché da quando è nato il terzogenito lo hanno esonerato dai turni notturni accorciandogli anche la settimana lavorativa.
Dopo l’ecografia, i medici spingevano per l’amniocentesi, ma Martina e Roberto non ne hanno voluto sapere. In arrivo c’era un figlio, esattamente come lo sono i precedenti due, e l’anomalia al cuore, dopotutto, si poteva correggere alla nascita. Così non è stato, perché Gabriele oltre ai problemi già diagnosticati aveva una malattia genetica, la Trisomia 18, che vuol dire malformazioni a vari organi interni e dunque compromissione delle funzioni vitali. “Quando, dopo la nascita e le analisi genetiche, ci hanno detto che il piccolo era affetto da Trisomia 18, all’ospedale di Bologna, medici e infermieri erano tutti in imbarazzo. Noi per un attimo abbiamo vacillato perché avevamo capito cosa ci aspettava. Però l’amore per lui no, non è diminuito: lui è nostro figlio, la malattia non ha cambiato nulla. Anche se la sua vita non è come quella degli altri bambini della sua età, lui è un membro della nostra famiglia e noi continueremo ad amarlo anche oltre il suo ultimo respiro”, continua Martina, gli occhi ora lucidi dalla commozione ora accesi da una tenerezza gioiosa. “E’ stato subito chiaro, per noi – riprende Roberto – che la vita di Gabriele è nelle mani di Dio. Sappiamo che oggi è qui e che tra un istante potrebbe non esserci più. La sua vita è questa, lui conosce solo questa. E con il nostro amore vogliamo che lui capisca che anche se è attaccato a una macchina la sua vita è per noi un dono grandissimo. Sappiamo che lui lo sa però vorremmo gridarlo al mondo: Gabriele per noi è importante e siamo disposti a dare tutte le nostre forze per lui”.Non è stato facile. Non è facile. Gabriele ha bisogno di medicazioni, la giornata è scandita dall’aprire e chiudere la macchina che gli fa arrivare il latte nello stomaco. “Fin dall’inizio ci è sembrata una cosa più grande di noi – ammette Roberto -. Ma non volevamo cedere alla paura di non farcela. Lo dovevamo a lui e ai suoi fratelli”.
“Ma perché proprio a noi?”, è una domanda che Roberto e Martina si sono fatti. La risposta è nella loro vita: da 8 anni i coniugi Zanta appartengono alla Comunità di Villaregia come sposati missionari. Il loro modo personale di portare il Vangelo tra la gente è anche questo: far apparire l’ordinario – l’amore a un figlio malato – straordinario in tempi di rifiuto della fatica e della sofferenza. In tempi di scorciatoie come l’aborto. Gli amici della Comunità dicono che il Signore voleva una famiglia speciale per un bambino speciale e ha scelto loro perché se Gabriele fosse arrivato altrove, ora non sarebbe qui. E’ vero: Gabriele è nato mentre la stragrande maggioranza dei bambini affetti da anomalie genetiche diagnosticate in gravidanza non ce la fa perché i genitori decidono di abortire. E oggi Gabriele vive ben oltre i suoi limiti fisici grazie a tante persone – i genitori, i fratelli Francesco e Chiara, gli amici del paese e della Comunità – che hanno creduto in lui. Nessun accanimento, nella tenerezza che circonda Gabriele: i medici dell’Ospedale di Padova e i genitori hanno stabilito un’alleanza. Il piccolo sarà curato, accudito, ma quando sarà il momento per lui di lasciare questo mondo, se ne andrà in pace, non sarà trattenuto a forza con terapie sconfinanti con l’accanimento. Nella certezza che qui in terra resterà l’impronta di Gabriele. I suoi fratelli Chiara e Francesco, i vicini di casa, i colleghi di lavoro, gli amici della Comunità, i medici e gli infermieri che con tanto affetto e professionalità lo hanno seguito a partire dalla nascita hanno visto in lui – concreti, reali - i miracoli che l’amore, da solo, può compiere. E nessuno lo dimenticherà.


Il commento

LA NOSTRA SOCIETA’ SPAVENTATA DALL’HANDICAP
di Carlo Valerio Bellieni

La storia del piccolo Gabriele mostra che oggi diventa eroico quello che dovrebbe essere normale, che amare il proprio figlio malato è un gesto sovversivo e rivoluzionario, degno di essere messo tra le icone degli avvenimenti che cambiano la storia. Eppure Gabriele aveva un nome da quando i genitori si sono accorti di lui e non potevano perdere lui se non perdendo parte di sé. L’hanno amato, anzi hanno sollevato il loro amore sopra metri di pregiudizi e fatica. Ma senza sentimentalismo: quello che qui leggiamo è l’uso della ragione e del cuore, binomio inscindibile, che attende in questo caso come in tanti altri un riconoscimento culturale, sociale ed anche economico dallo Stato, per non lasciar vincere la fatica e la cultura della fuga che questi genitori combattono giorno per giorno, anche per noi.
La storia della famiglia Zanta dimostra anche che non esiste nulla di eticamente neutro in medicina. Scrivo questo pensando all’uso della analisi genetica in gravidanza e al pericolo che possa diventare una semplice routine, finendo poi con lo scivolare verso un’inconsapevole forma di “rito” di ricerca e celebrazione della perfezione nel figlio.
Purtroppo la diagnosi prenatale genetica (la ricerca di malattie come le trisomie tra cui la sindrome di Down) sta diventando uno screening, cioè si fa di routine o attraverso l’indagine dei fattori di rischio o con il prelievo e l’esame del liquido amniotico o dei villi coriali. E ciò è particolarmente inquietante, perché fa entrare nella mentalità di tutti, spesso in buona fede, che il primo passo da fare sia “accertare” la normalità del bambino e non invece “accettare” il fatto che lui (o lei) ci siano. Non è un caso che in Europa nascano sempre meno bambini con anomalie cromosomiche, ad esempio la sindrome di Down: nel 1999 uno studio internazionale mostrò che il 90% circa dei bambini diagnosticati prima della nascita con sindrome di Down vengono abortiti, così come il 60% di quelli diagnosticati con sindrome di Klinefelter (alta statura, rischio di incapacità riproduttiva e di moderato ritardo mentale). Valori percentuali intermedi spettano ai bambini con spina bifida.
Non è un caso che intorno alle malattie genetiche crescano fortissimi pregiudizi. E non solo genetiche: gli autori di uno studio sull’ernia diaframmatica congenita (una malattia polmonare operabile alla nascita) spiegano che, anche se la sopravvivenza è dell’80%, la maggior parte dei bimbi con ernia diaframmatica diagnosticata prima della nascita vengono abortiti. Forse – concludono li autori - se si spiegassero meglio i fatti ai loro genitori, il loro atteggiamento di paura e rifiuto cambierebbe.
Vale la pena ricordare che la diagnosi prenatale genetica si esegue sul bambino, non sulla mamma, e dunque l’esame deve (dovrebbe!) essere nell’interesse del bambino, cioè del paziente per conto del quale i genitori hanno richiesto l’esecuzione dell’esame. Non è pensabile fare un esame su “A” nell’interesse di “B”, soprattutto se da questo esame “A” viene esposto a rischi (per esempio al rischio che dal risultato si decida di abortirlo). Spesso anche i rischi dell’indagine genetica sono sottovalutati: nel settembre 2008 in Gran Bretagna si è saputo che ogni anno 600 bambini sani sono “persi” come effetto collaterale dell’amniocentesi e della villocentesi.
Esiste nella società occidentale un’incapacità di affrontare la malattia, ma anche di affrontare la gravidanza: e da questa doppia incapacità si generano disastri sociali. C’è certo un problema serio di assenza dello Stato e dei responsabili dell’educazione, che spesso non sono in grado di spiegare la disabilità se non con la categoria della “tolleranza” (sinonimo di superiorità malcelata) e la malattia se non con quella di un vago sentimentalismo; ma la nostra società è malata di handifobia, un atteggiamento che di fronte all’idea della malattia fugge, invece di affrontarla, e che non capisce, come invece insegnano tanti disabili, che fa più paura la realtà immaginata della realtà reale. Il problema non è la malattia di cui si soffre, ma lo sguardo che il malato sente su di sé. Uno sguardo di stima e di fiducia, come è il caso del piccolo Gabriele, oppure di abbandono.

1 commento:

Anonimo ha detto...

good start